Ribasso, ribasso, ribasso: è questo il mantra maledetto che rimbomba tra gli uffici delle compagnie petrolifere, dei fondi d’investimento energetico, e anche nelle stanze dell’OPEC. Se il 2008, anno del boom dei prezzi a 147 dollari al barile, era stato la “tempesta perfetta” dei rialzi – tra speculazioni e reali necessità – il 2014 potrebbe essere l’anno della “calma perfetta”. Tanti, troppi fattori possono spingere il prezzo verso il basso. Non si tratta solo della diminuzione della domanda in alcuni mercati chiave: qui l’effetto del calo della richiesta di prodotti raffinati ha mietuto già vittime eccellenti, tra cui Shell e Total. Il “problema” è che aumenterà la produzione. Il mercato, secondo quanto rivela un operatore statunitense, «rischia di essere travolto da un’ondata di petrolio».
I timori al NYMEX sono reali. L’operatore ricorda che ancora nello scorso settembre il prezzo del WTI (il blend negoziato negli USA) erano stati sfiorati i 108 dollari al barile, mentre adesso siamo arrivati a 93, con tendenza alla discesa. Peraltro, tutto questo si materializza «in una condizione in cui alcuni produttori eccellenti devono ancora tornare a livelli di export ottimali». Il riferimento è alle rivolte arabe: Egitto e Libia devono ancora recuperare. Ci sono stati problemi anche in Nigeria, dove gli attacchi degli islamisti (e degli affamati) hanno fatto perdere a Shell 65.000 barili di produzione al giorno nei primi nove mesi del 2013. Nello stesso paese, Eni ha stimato di aver subito 471 perdite di petrolio (“oil spils”) dovute a motivi vari.
Non si trascuri poi l’Iran:se le negoziazioni nucleari dovessero andare a buon fine, Teheran potrebbe di nuovo trovare mercato per il proprio greggio, e nuovi investimenti potrebbero tornare nel paese, sostenendo la produzione. Un processo simile è stato attivato in Iraq, che punta a una produzione di 12 milioni di barili al giorno entro il 2017.
C’è di più: la pressione verso il ribasso non proviene solo dal Medio Oriente e dall’Africa, ma dagli Stati Uniti stessi. Secondo un report appena pubblicato dall’International Energy Agency di Parigi, entro il 2015 gli Stati Uniti sorpasseranno Russia e Arabia Saudita come maggior produttore mondiale di petrolio. In ottobre gli USA hanno prodotto 7,9 milioni di barili al giorno, cioè il livello più alto dal 1989. Gli Stati Uniti stanno anche usando meno barili. Dipende dal gas di scisto, che sta spingendo a impiegare veicoli a GPL e a sostituire il riscaldamento a gasolio con quello a gas.
È per questo che, sorprendentemente, negli Stati Uniti s’inizia a pensare di eliminare una vecchia legge che vieta di esportare petrolio non raffinato, così che si possa capitalizzare sul boom. Ci sono anche dubbi: nello stesso report dell’International Energy Agency si ricorda come il boom del petrolio americano sia dovuto in gran parte allo “shale oil”, cioè greggio estratto da pietre, che devono attraversare un complesso processo per produrre barili. Avrebbero una “curva di sfruttamento” assai più rapida rispetto ai giacimenti tradizionali, tanto che “la produzione di tale petrolio negli Stati Uniti potrebbe rappresentare solo un temporaneo sollievo dalla dipendenza rispetto al Medio Oriente”.
Secondo queste analisi occidentali, la bonanza (almeno per i consumatori) non durerà. Eppure, l’OPEC sembra meno convinta. A causa delle sanzioni, l’Iran dall’inizio del 2012 riesce a esportare solo un milione di barili al giorno. Se la situazione dovesse cambiare, in pochi mesi potrebbe tornare alla produzione a regime a 2,5 milioni al giorno. Con ulteriori investimenti, in tre o quattro anni potrebbe tornare ai livelli dei tempi dello Scià, a oltre quattro milioni al giorno – obbiettivo dichiarato del Ministro del petrolio Bijan Namdar Zanganeh. Ciò potrebbe scatenare una guerra dei prezzi all’interno del cartello, scatenata dalla necessità dell’Iran di ritagliarsi uno spazio in un mercato in declino.
Il segretario generale del cartello Abdulla El Badri si limita a esprimere “perplessità” sul fatto che gli Stati Uniti possano essere in grado di sostenere a lungo la produzione basata sullo shale (lo ha detto in Oman all’ultimo Gulf Intelligence Energy Forum già lo scorso gennaio). Su analoghe posizioni si è espressa Gazprom. Ma se alcuni esperti confermerebbero le posizioni di OPEC e Gazprom, altri si dimostrano più ottimisti rispetto alle risorse americane: John Daniels, esperto di shale drilling, ha scritto che «c’è ancora molto spazio per miglioramenti tecnici, per cui il boom durerà». È chiaro che un analista di Schlumberger ha tutto l’interesse a esprimersi in simili termini, ma anche gli analisti indipendenti sembrano sostenere la posizione di una produzione sostenuta per almeno una ventina d’anni.
Certo è che il ribasso petrolifero giunge in un momento di estrema necessità da parte dell’economia mondiale. Negli Stati Uniti lo shale ha contribuito ad abbassare il costo della bolletta energetica. Ci sarebbero già stati benefici anche in Europa, ma qui gli effetti sono stati neutralizzati dall’aumento delle accise. I governi indebitati hanno cercato di supplire alla diminuzione del gettito – dovuta al calo dei consumi e alla diminuzione del prezzo dei prodotti raffinati – facendo crescere le tasse. Si è così ingenerata una spirale negativa che ha dell’assurdo: nonostante i prezzi petroliferi fossero in diminuzione, l’incremento fiscale ha fatto diminuire la domanda, portando al ribasso il prezzo dei prodotti raffinati. È un circolo vizioso che rischia di far perdere all’Europa l’opportunità di una ripartenza energetica, al contrario degli Stati Uniti, e con buona pace dell’OPEC.