Se c’è il politico la municipalizzata chiude in rosso

Poltronifici locali

Lo ha specificato senza troppi giri di parole Fulvio Conti, numero uno dell’Enel: «C’è troppo pubblico in alcune attività che potrebbero più facilmente essere svolte dai privati con maggiori vantaggi per i cittadini clienti, ad esempio le municipalizzate e tutte le attività di servizio. Io le privatizzerei tutte». Al netto degli interessi dell’ex monopolista elettrico, il punto sollevato dal top manager non è peregrino. Dispenser di amministratori spesso senza alcuna competenza specifica, le municipalizzate falliscono due volte: nel portare a cittadini e imprese servizi a un costo competitivo e nel generare dividendi per gli enti locali che le controllano. Ovviamente non tutte le utilities sono uguali: sta meglio chi opera nei settori regolati – come reti e distribuzione – rigidi rispetto all’andamento del ciclo economico. Soffrono invece i produttori di energia da fonti convenzionali, chi tratta il ciclo dei rifiuti e il trasporto pubblico locale.  

A guardare l’andamento borsistico delle principali utilities sembrano tutte rose e fiori: da un anno a questa parte la lombarda A2a, partecipata pariteticamente dai Comuni di Milano e Brescia, ha guadagnato il 116% a 84 centesimi. Iren, utility di Torino e Genova, ha toccato 1,09 euro (+148%) mentre la romana Acea è salita del 106,7% a 8,12 euro. Minori, ma comunque significativi, i rialzi dell’emiliana Hera a 1,58 euro (+32,8%), e della trevigiana Ascopiave a 1,81 euro (+45%). I titoli con rally maggiormente sostenuti sono quelli delle società più indebitate: gli investitori hanno premiato la generazione di cassa derivante dalla riduzione dei costi e del taglio del debito, mentre la discesa dello spread sui titoli del Tesoro ha consentito di tenere sotto controllo la spesa per interessi. Ad esempio, le obbligazioni di A2a con scadenza al 2016 pagano “solo” l’1,8 per cento.

Piazza Affari, tuttavia, non racconta che una minima parte dello scenario. Una ricerca Anci del 2012 evidenzia che il 41% delle 3.600 società partecipate dai Comuni (di cui 1.470 riferibili a servizi pubblici locali) – in cui siedono 16mila amministratori – ha bruciato capitale proprio, accumulando perdite complessive per 581,2 milioni di euro. Non solo: l’85% delle municipalizzate (vedi tabella sotto) nel 2011 ha chiuso il bilancio in perdita, mentre l’88% di quelle che hanno archiviato i conti in utile è comunque al di sotto del valore medio degli utili complessivi. 

Che serva una razionalizzazione è pleonastico. Tanto per dare qualche numero: in Lombardia le municipalizzate sono 507, in Toscana 330, in Piemonte 320, in Emilia Romagna 304, in Veneto 275, in Campania 237. Altro paio di maniche è vincere le resistenze del territorio, come dimostra tanto lo sciopero selvaggio contro l’ipotesi privatizzazione dell’Amt, l’azienda del trasporto pubblico locale di Genova, quanto l’ultima Legge di Stabilità.

Le nuove disposizioni prevedono il licenziamento del management dopo due bilanci in rosso, la chiusura obbligatoria dell’azienda (a partire dal 2017) dopo quattro anni in perdita e l’obbligo di accantonamenti da parte degli enti locali a garanzia delle perdite. In cambio, l’esecutivo Letta ha dovuto cedere sulla privatizzazione delle controllate dei Comuni fino a 50mila abitanti e su quelle strumentali, aventi cioè come unico cliente la Pa. Di proroga in proroga è stata dunque cancellata prima la legge Ronchi, che imponeva agli enti pubblici di scendere sotto il 40% delle società che gestiscono i servizi pubblici essenziali, poi l’obbligo, fissato nel 2010 e scaduto lo scorso 30 settembre, di dismissione per i Comuni sotto i 30mila abitanti. A fine anno, invece, sarebbe scattato il termine ultimo per i Comuni tra 30 e 50mila abitanti per scegliere su quale municipalizzata – non più di una, escluse le Regioni salvate da un parere della Corte costituzionale che ha annullato la norma – tenere salda la presa.

L’altro risultato della mediazione tra Governo e Senato riguarda la definizione dei costi e rendimenti standard. Una roadmap senza tappe precise, che si basa sulla generica idea di mutuare la riforma della sanità regionale, tra le principali voci che concorrono a formare il deficit che imbriglia la capacità d’investimento italiana. Ad oggi i fabbisogni standard per razionalizzare gli esborsi dei Comuni sono stati completati su meno del 10% dei capitoli di spesa.

In un paper pubblicato l’anno scorso sull’Oxford journal of industrial and corporate change, Anna Menozzi, María Gutiérrez Urtiaga (Universidad Carlos III di Madrid) e Davide Vannoni (Università di Torino) hanno analizzato le performance di 114 utilities locali italiane, raccogliendo informazioni su 1.630 amministratori nel periodo 1994-2004 per capire se e quanto la presenza di politici in cda influisce sulla produttività e sui risultati aziendali. Arrivando a tre conclusioni tranchant: uno, il numero di poltrone negli organi di governance influisce più della loro composizione nell’aumento dei dipendenti. Due, la quantità di politici amministratori è più importante delle poltrone nella riduzione della performance economica. Tre, i politici nei cda influenzano negativamente i consiglieri indipendenti. Ergo: «Privatizzare lasciando i politici all’interno dei consigli d’amministrazione può danneggiare seriamente gli obiettivi della privatizzazione». Non solo: più sono forti i legami tra politica e municipalizzate, minore sarà l’efficacia positiva della regolamentazione del settore in cui operano.

La legge 133/2008 conteneva qualche antidoto, come l’introduzione delle gare d’appalto tra privati per servizi pubblici essenziali, la separazione tra azionisti e management escludendo membri degli enti locali e manager che negli ultimi tre anni abbiano lavorato per l’ente o gli enti pubblici controllanti. Misure cadute nel dimenticatoio.