“I giovani eritrei fuggono in massa, l’economia sembra entrata in una spirale mortale, le prigioni sono stracolme e il suo pazzo dittatore resta crudele e sprezzante… il paese è sull’orlo del disastro?” così in un cablo di wikileaks del 2010 un diplomatico americano dipingeva l’Eritrea. Uno dei paesi africani da cui venivano i migranti approdati a Lampedusa di recente. Uno dei paesi africani meno raccontati e meno conosciuti. Ancor più grave la lacuna nostrana se si pensa che è stato colonia italiana. Perché lo si racconta poco?
Ad esempio, perché la stampa privata e indipendente non esiste più dal 2001 chiusa dal governo centrale dato che considerata un pericolo per la sicurezza nazionale. Centinaia i giornalisti arrestati. Reporters senza Frontiere descrive la situazione come “scandalosa”. L’anno scorso il paese era all’ultimo posto al mondo nell’indice della libertà di stampa, record negativo conquistato per il quinto anno consecutivo.
La storia dell’Eritrea è la sua storia militare, e in essa i militari, intesi come alti ufficiali, giocano un ruolo determinante. Ed è la storia del suo Presidente Isaias Afewerki, leader del Fronte di Liberazione, eroe della liberazione appunto dall’Etiopia nel 1993, ma poi sempre più rinchiuso nel ruolo di dittatore e padre padrone del paese, impegnato in un conflitto con lo Yemen prima e ancora con l’Etiopia poi.
Recentemente, a partire dal 2009, vi sono state le accuse di sostenere gli islamisti di Al Shabaab in Somalia, e ancora le infinite dispute territoriali con Addis Abeba, a sua volta accusata di sostenere milizie contro Asmara, ma poi anche con Gibuti. L’Eritrea è forse il paese più militarizzato al mondo, eccezion fatta per la Corea del Nord. Il servizio militare in Eritrea è obbligatorio e dura praticamente una vita. Chi diserta viene arrestato, i familiari minacciati. Lo stesso per chi fugge. Questo spiega la riluttanza dei profughi eritrei a farsi riprendere o fotografare: il rischio è altissimo, perché secondo le tante denunce e testimonianze, il regime di Asmara ha “agenti” ovunque: e secondo le testimonianze, le famiglie che restano, rischiano.
Secondo altre denunce, la leva militare serve anche ad avere forza lavoro nei pochi cantieri statali o parastatali. Se dovessimo assegnare all’Eritrea un’etichetta, sarebbe quella di uno stato vicino al collasso, tanto che numerosi analisti fanno a gara nel predire il post Afewerki. E tra le ipotesi, la meno rassicurante, tra quelle tracciate per esempio da International Crisis Group è una guerra civile. Recentemente, soprattutto a partire dal 2012, che alcuni analisti indicano come annus horribilis per Afewerki, vi sono stati alcuni segnali mostrano crepe nel regime di Asmara, sempre molto attento a non far trapelare alcun segno di dissidenza.
Il 21 gennaio scorso, ha destato scalpore l’occupazione da parte di alcuni militari del ministero dell’Informazione. Pare che 100 militari abbiamo dato inizio a un colpo di stato chiedendo l’applicazione della costituzione congelata dal 1997 e la liberazione dei detenuti politici (il cui numero è altissimo, ma imprecisato). Incidente subito rientrato ma che ha mostrato la fragilità del regime di Afewerki, che appare sempre più isolato e costretto a ricorrere alla forza e alla repressione interna. Dal 2010 non ci sono più corrispondenti stranieri, e quell’incidente rimane tuttora avvolto nel mistero.
Secondo Awate.com, un sito d’opposizione in esilio, l’ammutinamento, in verità poco organizzato, sarebbe stato guidato dal colonnello Osman un eroe della resistenza contro l’Etiopia durante la guerra 98-2000 nel porto di Assab. Pare anche che non vi siano stati arresti da parte di Asmara dopo che i militari hanno lasciato pacificamente il ministero. Tutto ciò che venne riferito «Reportage spazzatura» disse Asmara subito dopo: è tutto a posto. Mai successo nulla.
Ma appunto, segnali di crepe, di dissenso da parte dei militari e dell’entourage di Afewerki. L’anno scorso anche Ali Abdu, ministro dell’informazione, disertò. Così come finì sulla ribalta la fuga a dicembre dell’intera squadra di calcio mentre era in Uganda per giocare una partita. Tutti sintomi che spiegano la fuga negli anni di decine di migliaia di giovani fra i 20 e i 40. Come quelli morti o approdati a Lampedusa le scorse settimane.
Da cosa scappano? Da un’economia in ginocchio, assai legata agli aiuti: benzina e altri beni sono spesso introvabili se non sul mercato nero, gestito dai militari. Una speranza poteva venire dal settore minerario ma anche lì si allungano preoccupanti ombre sulla gestione di Asmara di quel settore: secondo Human Rights Watch, nelle miniere d’oro di Bisha che hanno iniziato a produrre oro nel 2011, erano impiegati molti militari reclutati a forza come operai e che lavoravano in condizioni durissime e a salari miseri. Dall’Aprile del 2012 si susseguono rumors sulle cattive condizioni di salute di Afewerke (sarebbe gravemente malato al fegato) ed è chiaro a tutti che le sorti del paese potrebbero cambiare ed è difficile capire in quale direzione in caso di una sua uscita di scena. Intanto dall’Eritrea si continua a scappare.
Così come si continua a scappare dalla Somalia, un’altra ex colonia italiana che per oltre 20 anni è stata dilaniata da una feroce guerra civile. Anche la Somalia è stata (ed è) etichettata per anni come “stato fallito”. Dal 1991 non ha praticamente avuto un governo degno di questo nome, ha vissuto semmai istanza autonomistiche (Somaliland per esempio), è stata preda degli appetiti dei suoi clan e di rovinosi interventi stranieri. Dal 2012 un nuovo esecutivo supportato dalla comunità internazionale tenta di ridare stabilità al paese che negli ultimi anni ha dovuto lottare contro le milizie di Al Shabaab, estremisti islamici, ufficialmente legati ad Al Qaeda, che a un certo punto nel 2009 controllavano praticamente tutto il paese tranne alcuni quartieri della capitale Mogadiscio. Il fragile governo ha vissuto grazie al supporto dei militari dell’Unione Africana e ora spera di prendere aria grazie agli aiuti internazionali, agli istruttori militari fra cui gli italiani che devono addestrare l’esercito governativo (uno dei più seri problemi, visto che è un esercito finora formato da milizie fedeli ai vari clan). E dovranno contrastare al Shabaab, autore dell’attacco al centro commerciale di Nairobi. È vero che al Shabaab perde sempre più consenso nella popolazione, ma resta un pericolo gravissimo per la stabilità del paese e dell’intera area. L’imposizione della sharìa nella sua forma più intransigente ha logorato la popolazione nelle aree occupate. L’amministrazione di al Shabaab non ha fatto altro che reprimere la Somalia. L’ingresso recente di Etiopia e Kenya sul suolo somalo per lottare contro gli estremisti ha rivelato ancora una volta la fragilità del paese.
Povero, senza infrastrutture, in preda alla corruzione. In Somalia sperare di studiare ad alti livelli (o persino trovare una scuola) è un’utopia, specie per i giovani delle zone rurali. Ci sono giovani che non hanno conosciuto nulla se non uno stato di guerra. Significa che al paese sono state private le sue gambe, fornendo timide stampelle sotto forma di aiuti internazionali e sostegni militari. Ma dare opportunità e non fare fuggire i cittadini somali significa aiutare a ricostruire il paese. Fra l’altro le tragedie al largo di Lampedusa sono solo un aspetto del problema e della fuga dei somali. La traversata del Golfo di Aden verso le coste del sud dello Yemen ha consegnato alla cronaca morti, naufragi e campi profughi. I Somali non scappano solo verso Lampedusa.
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