Fra le tante notizie-minacce che ricorrono e vengono agitate, ora come bastone, ora come carota, sulle nostre teste adesso c’è anche quella dell’incertezza dei bilanci previdenziali. Ieri un comunicato e una dichiarazione dell’Inps, uno di mattina, l’altra di sera, ci hanno prima informato che c’era una situazione di “non totale tranquillità dei conti”, e poco più tardi assicurato che c’è “piena sostenibilità” dei bilanci. Già su questo avvicendarsi di voci contraddittorie ci sarebbe da ridire: dal tempo dei tecnici in poi nulla sembra più certo nei bilanci dello Stato, ottimismo e pessimismo, se non addirittura catastrofismo si alternano in una girandola di colpo di scena sulle voci di bilancio più disparate. E sembra che una studiata strategia di demolizione delle certezze serva a preparare sempre nuovi tagli e nuovi colpi di scena.
Ma a parte questo, è proprio sulla questione previdenziale che non dovrebbe essere accettato nessun giochetto. Quando la ministra Fornero varó la sua riforma, infatti, fu pagato un prezzo sociale molto alto, con la creazione di due o trecentomila (a seconda di come li si calcola) esodati, ovvero con un enorme numero di persone che sono rimaste prive di copertura. Difesi – a parole – da quasi tutti i partiti, gli esodati sono rimasti sostanzialmente abbandonati a se stessi, e il governo Letta ha deciso di sanare solo una piccolissima parte delle emergenze, sette o ottomila persone da tutelare, per gli altri si vedrà di manovra in manovra. Alla piaga degli esodati si è aggiunta poi quella parallela, ma a se stante degli “scongiunti”, che ora sono un grave problema di molti, ma che domani potrebbero diventare il grande dilemma di tutti noi, il destino di una generazione – la prima senza tutele previdenziali garantite – che dovrà ricostruire carriere contributive a dir poco rapsodiche e acrobatiche.
Fu lo stesso presidente Mastrapasqua, durante una intervista, a spiegarmi che effettivamente i parametri di riscatto previsti per le ricongiunzioni sono eccessivamente vessatori, che l’istituto guadagna moltissimo dalle cifre richieste, aggiungendo però che – ovviamente – senza un intervento della politica nulla si può fare per risolvere il problema: ecco che tanto per fare un esempio, per riscattare cinque anni di carriera con contributi versati regolarmente, ma magari in casse diverse, bisogna sborsare importi da riscatto dell’anonima sequestri. Un tempo il problema del riscatto era la privazione della libertà fisica, adesso la stessa parola racconta il problema della privazione della sicurezza previdenziale.
Eppure, fino a ieri, il prezzo di tutte queste incredibili disfunzioni era una grande sicurezza strutturale, ostentata con orgoglio da ministri e dirigenti: grazie alle riforme rigoriste di un ventennio, da quella di Lamberto Dini, a quella di Bobo Maroni, a quella appunto della Fornero – ci assicuravano – i conti sono a posto: abbiamo alzato l’età di lavoro ai livelli più alti d’Europa, andiamo in pensione molto più tardi di francesi e tedeschi, se c’è un comparto del spesa pubblica su cui possiamo esibire con soddisfazione un primato è proprio quello della previdenza. Ed invece ecco la beffa: la fusione di Inpdap e Inps, che prova a salvare il deficit del pubblico impiego facendo cassa comune con i fondi degli altri lavoratori, ha fatto passare il bilancio da un attivo di un miliardo ad un deficit di nove: si noti, ovviamente, che tutto questo è stato deciso con il leggendario decreto “Salva-Italia”. Siamo di nuovo appesi, di nuovo incerti. Seguiranno rassicurazioni, stangate, e forse una certezza. La prossima guerra che attraverserà l’Italia sarà una guerra previdenziale: una guerra fra garantiti e sans culottes, tra sommersi e salvati. Si combatterà fra trent’anni, ma i suoi presupposti affonderanno le loro radici nelle diatribe di questi giorni di incertezza.