«Forse la paralisi è la strategia migliore». La mette giù così un osservatore di lungo corso di Unicredit e Intesa Sanpaolo, due campioni bancari nazionali alla disperata ricerca di una strategia convivere con il rischio concreto di dieci anni di deflazione nipponica. È l’ossessione di Roberto Nicastro, direttore generale di piazza Gae Aulenti, nuova sede Unicredit, espressa alla presenza di politica e istituzioni in un incontro a porte chiuse a Roma, vicino a Palazzo Grazioli. “Meglio fare e pentere che starsi e pentirsi”, diceva Giovanni Boccaccio. Peccato che i due istituti abbiano scelto la seconda strada per affrontare la sindrome giapponese.
Nel fiammante quartier generale di Unicredit, di fronte alla Stazione Garibaldi, ci sono tre grattacieli. «Gli unici piani che hanno budget si trovano nella metà inferiore dell’edificio più basso, tutto il resto sono “overhead”: legali, addetti alle risorse umane, back office», afferma un top manager dell’istituto. Un’osservazione che dà la misura concreta della progressiva burocratizzazione della banca. Colpa della Bce, che la considera “Sifi”, ovvero di importanza sistemica. In altri termini troppo grande per fallire. Vero, ma è solo una parte della storia: la strategia dell’amministratore delegato Federico Ghizzoni è utilizzare meno bilancio possibile per dare credito. I portafogli crediti non sono più una risorsa per fare margini, ma un problema da minimizzare con la “riportafogliazione”. Non a caso l’istituto è stato tra i primi a creare una bad bank interna separando il grano della clientela “beta” – che può pagare – dal loglio di quella “alfa”. Eppure gli accantonamenti sono scesi del 10,6% rispetto a fine marzo a 1,55 miliardi – addirittura del 63% nel corporate – e degli attivi ponderati per il rischio del 2,7% su giugno a 399,7 miliardi. Insomma, il patrimonio non rende, mentre il capitale va liberato per accantonare un dividendo sul quale Ghizzoni è stato iperprudente. Se il pallino dell’ex amministratore delegato Alessandro Profumo per l’Est Europa sta dando i suoi frutti, l’istituto paga l’acquisizione di Hvb tanto in termini di costo di finanziamento, che include il rischio-Italia rispetto ai competitor come Commerzbank, quanto sulla prevalenza dell’industria sulla finanza – un po’ come in Italia – nell’economia tedesca e nella forte liquidità delle imprese locali. A livello corporate i margini si contrarrano ulteriormente anche per via della ripresa delle operazioni degli istituti stranieri in Italia, capaci di offrire spread sensibilmente inferiori.
Di conseguenza, nonostante gli asset di Unicredit sfiorino i mille miliardi, a fine anno l’utile si fermerà verosimilmente a soli 1,4 miliardi. Tanto per dare un’idea: sui nove mesi l’utile netto portato in dote dalla Polonia è stato di 1,2 miliardi a fronte di una perdita di 561 milioni in Europa occidentale, leggi Italia. La vendita delle attività assicurative turche, la cessione della quota nella borsa moscovita, l’uscita da Fondiaria SAI hanno sì fruttato 340 milioni di plusvalenze, ma si tratta di operazioni non replicabili. Lo spin-off delle attività di private equity, a cui sta lavorando il management, frutterà altri 150 milioni nell’ultimo trimestre. Misure necessarie visto anche l’aumento del cost/income – indicatore dell’efficienza gestionale – dal 57,6 al 60,6% nonostante la riduzione dei costi operativi del 2,2% in un anno, a quota 11 miliardi.
Completamente diverse le criticità di Intesa Sanpaolo, che in comune con Unicredit ha soltanto la leva (17,4x) e sta pesantemente scontando la tardiva internazionalizzazione. I primi segnali che trapelano dal piano industriale sul quale il consigliere delegato Carlo Messina è al lavoro – il primo dopo l’uscita di Corrado Passera, che risale al 2011 – evidenziano una semplificazione delle divisioni territoriali (iniziata da Cucchiani), una maggiore concentrazione sulle Pmi e l’aumento del peso della divisione banche estere, da cui proviene solo il 10% degli impieghi.
A differenza di Unicredit, Intesa è ancora impegnata a trovare un modello alternativo a quello costruito da Passera e Bazoli. Proporsi come braccio finanziario della politica nello sviluppo del territorio è stata una strategia che non ha retto al cambiamento dell’economia globale seguito al fallimento di Lehman. Tuttavia il management non ha ancora trovato un’idea migliore.
Al chiaro messaggio lanciato dal numero uno del consiglio di gestione, Gian Maria Gros-Pietro attraverso un’intervista al Corriere della Sera in cui ha spiegato che – «Il nostro compito adesso è tornare a fare la banca chiudendo con chiarezza, nei tempi e nei modi dovuti, la stagione delle cosiddette operazioni di sistema» – Giovanni Bazoli ha risposto: «Mi rifiuto di parlare di banca di sistema: questo è un grosso equivoco, quando si intendono rapporti propri con la politica». Aggiungendo: «Sfido chiunque dati alla mano, a dimostrare che nei trent’anni in cui me ne sono occupato la banca non abbia svolto il suo compito fondamentale, che è quello di aiutare l’economia». Schermaglie a parte, Gros-Pietro non solo sa come si gestisce il potere politico, ma è vicino al Pd esattamente come il professore bresciano. E dunque ha lo standing per prenderne il posto, un domani.
L’anima del San Paolo, più cooperativa e legata alla rete territoriale rispetto allo storico dirigismo di Banca Intesa, ovviamente tifa per il torinese Gros-Pietro. Il suo zampino, dice chi sta lavorando al piano con Messina, è evidente nell’attenzione alle Pmi come perno imprescindibile per lo sviluppo futuro dell’istituto. Trasformare in risorsa un problema, tuttavia, non è banale: la contrazione dell’utile netto dei nove mesi a 640 milioni (-62,1% anno su anno) è parzialmente ascrivibile agli accantonamenti extra sui crediti in ottica asset quality review: le coperture sono state innalzate al 44,5% (+1,8%) a fronte di rettifiche pari a 4 miliardi (+24%) su crediti deteriorati lordi che salgono da 49 a 55 miliardi da gennaio a settembre, dei quali 32 miliardi (da 29) di sofferenze. Con il polmone del trading che non dà più ossigeno come in passato – l’utile netto di Banca Imi si ferma a 390 milioni (-21%) – e un cost/income stabile al 49,8% (ma migliore di Unicredit), l’unica leva possibile è la riduzione dei costi operativi, che scendono del 7% a a 6,1 miliardi. Le direttive sull’erogazione del credito sono chiare: il rubinetto non si apre se l’impresa non copre il costo del credito, che nei nove mesi è salito a 154 punti base: non per niente gli impieghi si contraggono del 7% a 350 milioni.
Sulle partecipazioni “di sistema”, dopo l’annunciata vendita dell’1,3% in Generali, una quota del valore di 347,8 milioni ceduta con una plusvalenza per 63 milioni, e la svalutazione di Telco – holding che controlla Telecom Italia – per 28 milioni, Intesa Sanpaolo rimane impelagata assieme a Unicredit in quattro partite dagli esiti incerti: Pirelli, Alitalia, Risanamento e Tassara. Sulla sospensiva della decisione Consob sull’Opa lanciata dal veicolo Lauro61 (partecipato dai due istituti e da Clessidra) su Camfin, holding che detiene la maggioranza del gruppo della Bicocca, si pronuncerà il Tar del Lazio il prossimo 20 novembre. La compagnia di bandiera, finanziata con 100 milioni da entrambe, ha prorogato al 27 novembre l’esercizio dell’opzione sull’aumento di capitale e ha licenziato il piano industriale con il voto contrario del principale azionista, Air France, ed è in cerca di partner, forse dagli occhi a mandorla. Luigi Zunino è pronto a lanciare un’Opa per poi delistare Risanamento pare con l’aiuto di un fondo sovrano del Qatar, mentre proseguono le trattative sul conferimento a Idea Fimit dell’area di Milano Santa Giulia e sulla valorizzazione dei pregiati immobili parigini del finanziere piemontese. Per quanto riguarda la holding di Zaleski, Ca de’ Sass convertirà il credito da 1,1 miliardi in azioni per 445 milioni di euro, mentre Unicredit per 70 milioni rispetto a 453 milioni di crediti. La prima ha accantonato prudenzialmente 430 milioni di euro, la seconda 150 milioni.
Ironia della sorte, il consolidamento del sistema finaziario del Paese, che è valso di fatto a Mario Draghi la presidenza di Eurotower, potrebbe non passare l’esame della Bce. Tanto più che i prestiti LTRO non sono ancora stati rimborsati se non in minima parte. Sarà per questo che, come un fiume carsico, in questo periodo sono riaffiorate le voci di fusione tra Mediobanca e Unicredit, suo principale azionista. Voci per ora sempre smentite ufficialmente. Leggendo i dati sulla riduzione dei costi operativi, rimane però un dubbio: quanti lavoratori occorre sacrificare per tornare a generare ritorni sul capitale a doppia cifra?