Il tempo mentale della regia di Roman Polanski è sempre quello della gioventù: i suoi film, i più riusciti, sembrano sempre l’opera di un talento debuttante. La freschezza del racconto, la capacità di saltare tra i generi, l’intelligenza di sondare la contemporaneità con storie che esaltino la propria cifra autoriale senza farla debordare e pascolare tronfia, e non ultimo la sua carriera così folta e luminosissima, sono tratti che fanno di lui, incredibilmente ottantenne nonostante l’eterno guizzo fisico da folletto, un monumento vivente della settima arte.
Lo dimostra una volta di più questo suo Venere in pelliccia, dal 14 novembre sui nostri schermi. Questo film è una specie di ogm. E’ tratto da un’opera teatrale del drammaturgo americano David Ives, qui cosceneggiatore, il quale l’ha scritta liberamente ispirandosi all’omonimo romanzo erotico ottocentesco di Leopold von Sacher-Masoch, il quale fu a sua volta ispirato dalla Venere allo specchio, sfarzoso dipinto di Tiziano. Attraverso questi successivi gradi di elaborazioni estetiche, il soggetto mitologico diventa sul grande schermo l’incontro-scontro tra un regista e un’attrice alle prese con la messa in scena della passione sadomasochista, offrendo a Polanski l’occasione per una nuova, divertente variazione della sua idea di cinema. Un cinema che ha come caratteri dominanti la teatralità e le relazioni tra pochi personaggi caricati di potente forza motrice. Naturalmente è facile accostare Venere in pelliccia a Carnage, precedente film di Polanski, ugualmente tratto da un testo teatrale contemporaneo, Il dio del massacro della francese Yasmina Reza. Ma in realtà la sostanza teatrale attraversa tutta l’opera del maestro di Varsavia: da La morte e la fanciulla (tratto dalla piece del cileno Ariel Dorfman) risalendo indietro fino al folgorante esordio del Coltello nell’acqua, la sua filmografia si configura spesso come il racconto di un intimo incendio claustrofobico. In cui lavora un invisibile dio del massacro, sovversivo e beffardo, che ribalta in finale il quadro che ci era stato dato in principio.
Vale anche per Venere in pelliccia: il regista Thomas, interpretato da Mathieu Amalrice che sembra il sosia di Polanski medesimo, dentro uno scalcagnato teatro di periferia parigina sta facendo i provini per il suo spettacolo Venere in pelliccia ma è disperato perché non trova l’attrice giusta. E’ ormai quasi sera, lui sta andando via quando irrompe nel teatro Vanda (una superba, incantevole Emmanuelle Seigner), che si chiama come il personaggio della Venere, che è maleducata e cafona, trasandata e sporcacciona, ma conosce la parte a memoria, sa esattamente dove mettere le mani, anzi sembra incarnare quel testo pienamente con la propria personalità: una volta sulla scena, nelle parole dell’altra Vanda, si trasforma, diventa elegante e misteriosa, seducente e preziosa. Thomas è man mano sconvolto e avvinto da questa finzione troppo vera, che la Seigner interpreta in maniera strepitosa passando tra una battuta e l’altra dalla bassezza greve al fascino irresistibile, rendendo credibile con un’evoluzione di braccia e di portamento la trasformazione di una sciarpona di lana in una lunga pelliccia lussuriosa, simbolo di desiderio.
Il gioco di seduzione di Vanda comincia a diventare pericoloso quando scavalca il copione e il rapporto di potere regista-attrice e si incunea nella vita di Thomas, nelle sue relazioni, nel profondo dei suoi istinti. E il maschilismo, con sottile cattiveria, infine è abbattuto da un perverso femminismo, in un capovolgimento di ruoli giocato con autocitazioni più divertite che autocompiaciute, dall’Inquilino del terzo piano a Luna di fiele.
Una lezione per tutti i giovani autori: non c’è nessun impedimento economico alla realizzazione di un gran film, occorrono una storia con tutti i crismi e gli attori giusti (anche due soltanto). Non ci credete? In questa Venere in pelliccia non c’è nemmeno una pelliccia… Certamente tra le migliori opere della stagione.