Scrivere un libro mediante il flusso di coscienza joyciano e con un massiccio uso di corsivi al tempo dei social network, può sembrare un azzardo, una follia. Se poi il libro in questione trae spunto dal celebre Risvegli di Oliver Sacks per descrivere i pazienti colpiti da encefalite letargica e il dramma della generazione andata al fronte nella prima guerra mondiale, è chiaro che il reporter e scrittore britannico, Will Self, con Ombrello (ISBN, 368 pagine, 26,50 €, traduzione di Gaja Cenciarelli, Andreina Lombardi Bom e Daniele Petruccioli) ha scritto un libro coraggioso. Ma soprattutto sorprendente, capace di una completa e straniante immersione in una narrazione sospesa. Protagonista è Audrey Death, prima operaia in una fabbrica di ombrelli, poi impiegata nell’industria bellica e suffragetta, colpita da encefalite letargica dopo la Grande Guerra; ma alla sua esistenza si mescolano quella dei fratelli Albert e Stanley e lo psichiatra Zack Busner che la prenderà in cura. Con queste premesse — il libro è stato finalista al Man Booker Prize 2012 — potremmo legittimamente aspettarci un libro accademico e invece Self riesce a portare in pagina il mondo là fuori, con in controverso amore fraterno, rifiutando di scrivere un libro per chi ha letto troppi libri…
Hai dichiarato che «questo libro chiedeva d’essere scritto». Com’è nato Ombrello?
È stata una genesi complessa. Probabilmente ispirata dalla rilettura di Risvegli di Oliver Sacks, dai sintomi accusati dai pazienti colpiti da encefalite letargica e da come questi siano riusciti a riemergere dalla malattia, con uno strascico che, per certi versi, li ha resi simili a delle macchine. Mi riferisco ai tanti tic che accusavano, all’eccessiva velocità e i rallentamenti improvvisi dei loro movimenti. Spaventoso ma affascinante.
Inoltre ha giocato un ruolo importante anche la crescente consapevolezza degli effetti della prima guerra mondiale e la sensazione che essa ha rappresentato il culmine della modernità, proprio come Londra che ad inizi ‘900 era al massimo splendore. Perciò, da quel momento in poi sembra sia iniziata una fase di decrescita, di slittamento verso il basso. Inoltre mi ha influenzato anche la lettura de La Grande Guerra e la memoria moderna di Paul Fussell.
Ovvero?
Concordo con lui sul fatto che la data di inizio del primo conflitto mondiale sia da considerare come l’innesco di un processo che ha ammantato d’assurdità desolante il ventesimo secolo, nato dal crudele e ironico rovesciamento della guerra: tutti quegli uomini che marciano al solenne suono delle bande, convinti della nobiltà di ciò che stavano facendo per poi finire nell’inferno e nello squallore delle trincee… Sono partito da tutte queste fonti… e altro ancora.
Il tuo romanzo si muove su tre piani temporali e al centro c’è la figura di Audrey Death. Chi è davvero la tua protagonista?
Beh, l’ho conosciuta attraverso la scrittura del libro. Non ho pianificato troppo sul suo personaggio, non faccio mai queste cose. La sua famiglia, la famiglia Death, è in larga parte ispirata a quella di mio nonno: Death = Self (morte = sé stesso, NdR). La storia della mia famiglia è stata un’altra importante fonte di ispirazione per questo libro. Mediante da un censimento del 1911 ho scoperto che mio nonno aveva un fratello, Stanley, del quale non avevo mai sentito parlare e aveva esattamente l’età giusta per essere stato ucciso nella prima guerra. Mio nonno aveva anche due sorelle, mancava proprio la terza ovvero Audrey. Lei rappresenta il tipo di donna che vorrei conoscere, in tutti i sensi.
Oggi sembrano rinascere le short stories e impera la comunicazione rapida, immediata dei social network. L’uso dello stream of consciousness — associato ai frequenti corsivi — sembra quasi una provocazione. Perché questa scelta?
Per ragioni emotive non intellettuali, ho semplicemente sentito che queste erano le tecniche stilistiche appropriate al materiale che volevo trattare. Non potevo più continuare a scrivere in un linguaggio formale e convenzionale semplicemente perché lo sentivo terribilmente falso e artificiale.
I tuoi personaggi non sono analfabeti ma si discostano fortemente da un certo manierismo intellettuale. Volevi più semplicità, più spontaneità sulla pagina?
Troppi romanzi sono scritti da troppe persone che hanno letto troppi romanzi, e letti — ovviamente — da altre persone che hanno letto troppi romanzi. Io non leggo affatto romanzi contemporanei.
«Un ombrello come un fratello si dimentica facilmente». Da questa citazione di Joyce si può trarre un’interpretazione del romanzo?
Sì, è una chiave fondamentale per la narrazione del romanzo: si tratta di un libro che affronta le controversie dei rapporti tra fratelli, i nostri fratelli — in particolare i nostri fratelli dello stesso sesso. possiamo facilmente sentirli molto vicini ma, allo stesso tempo, anche molto distanti. In questo modo Joyce aveva proprio ragione: sono come ombrelli.
Hai detto di non scrivere per i lettori. Dunque cosa significa per te scrivere?
È semplicemente quello che faccio — il mio modo di guadagnarmi da vivere, e di dare un senso al mondo.
Ombrello farà parte di una trilogia?
Sì, adesso sto lavorando sul secondo libro, Shark e ho già delineato il terzo, Phone.
Continuerai con la macchina da scrivere o ti convertirai al pc?
Uso da ben dieci anni una macchina da scrivere manuale. Da quando la banda larga wireless ci ha raggiunti sino in casa ho subito capito subito che sarebbe stata una terribile distrazione.