Un anno di transizione. Il 2013 economico-finanziario è stato soprattutto questo. Un anno chiaroscurale, nel quale si è sancita ancora di più la scissione tra le economie sviluppate e quelle emergenti. Da un lato un’America che ha ripreso a correre anche e soprattutto grazie al Quantitative easing (Qe) della Federal Reserve. Dall’altro un’eurozona che fatica ancora a trovare la sua identità ed è falcidiata da divisioni che sono sempre più profonde. Sullo sfondo, Paesi emergenti e sub-emergenti che puntano a guadagnare potere, ma allo stesso tempo vacillano di fronte agli squilibri interni. Un anno difficile, specie per l’eurozona, che lascerà il posto a 12 mesi ancora una volta transitori, di passaggio. La strada per il ribilanciamento dell’economia globale è ancora lunga.
L’eurozona del 2013 è sicuramente un luogo più sicuro di quello che era nel 2012. Il rischio di convertibilità dell’euro si è ridotto in modo rilevante e la frammentazione finanziaria, sebbene sia ancora elevata, non si è amplificata. La recessione è terminata – opinione unanime – ma sta lasciando spazio a una ripresa delle attività economiche del tutto disomogenea e fragile, in prevalenza basata sulla domanda esterna e non su quella interna. Lo è tanto per il cuore dell’area euro quanto per la periferia, che oggi sta vivendo un periodo nero anche grazie a un calo generalizzato dei prezzi al consumo che rischia di divenire in breve tempo una deflazione capace di vanificare la ripresina che stiamo osservando. È questo uno degli spauracchi della Banca centrale europea (Bce) che nel 2012 ha provocato la calma apparente che ancora oggi è presente sui mercati finanziari europei. Come? Tramite le Outright monetary transactions (Omt), il programma di acquisto di bond governativi sul mercato obbligazionario secondario dietro una forte condizionalità imposta ai Paesi richiedenti aiuto. Nonostante non siano ancora state testate dagli investitori, questi credono ancora alle parole di Mario Draghi, quelle pronunciate il 26 luglio 2012 alla Global investment conference di Londra: «Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough». Per ora, è bastato.
Ma l’eurozona del 2013 ha vissuto momenti di panico. In marzo l’episodio forse più significativo: Cipro. Durante lo sciagurato Eurogruppo di metà marzo, il presidente del consesso dei ministri europei delle Finanze, Jeroen Dijsselbloem annunciò un bail-in delle banche cipriote, in notevole difficoltà da mesi. Mai utilizzato fino ad allora, il bail-in è una pratica che prevede che siano azionisti, obbligazionisti e depositanti a dover pagare per il salvataggio della banca. Soldi privati invece che soldi pubblici. Una misura, o meglio un assetto di misure, che era già stato teorizzato dall’Association for financial markets in Europe (Afme), la lobby finanziaria europea, nel 2010. Poi, questo strumento fu ripreso anche dalla Commissione europea. Ma mai fu applicato nella realtà. Fu fatto con Cipro, in modo brutale e inconsueto. Furono applicati capital control, ovvero restrizioni sulla libera circolazione dei capitali, che dovevano durare poche settimane e invece sono ancora attivi. E fu effettuato una sorta di prelievo forzoso dai conti correnti, andando a targettizzare alla perfezione i soggetti colpiti, in prevalenza russi. A distanza di mesi si può affermare con certezza che Cipro su un esperimento, una sorta di laboratorio a cielo aperto, per bail-in e introduzione di capital control. Due i motivi. Uno geografico, dato che trattasi di isola, con la conseguente difficoltà alla circolazione dei capitali. Uno finanziario, dato che la segmentazione dei depositi nelle banche cipriote era nota da tempo, in quanto il Paese era considerato un porto sicuro per la malavita russa. Risultato? Da un punto di vista teorico, nonostante i problemi iniziali, si può giudicare ben riuscito l’esperimento di Cipro. Le banche stanno uscendo dalle difficoltà e l’Ue ha potuto saggiare come gestire l’emergenza di un bail-in. «Cipro non è un modello», disse Dijsselbloem nei primi giorni di crisi. Peccato che poi, come vedremo, lo sia diventato a tutti gli effetti.
Il 2013 europeo si può raccontare anche attraverso gli occhi del populismo. In febbraio sono stati tanti i timori in merito all’esito elettorale in Italia. Beppe Grillo e il suo Movimento 5 Stelle sono risultati essere le vere sorprese di un’elezione inconcludente e pericolosa per la stabilità dell’eurozona, che poi ha prodotto un governo di scopo – riforme e ripresa i due temi principali – guidato da Enrico Letta e supportato da Giorgio Napolitano, al suo secondo mandato al Quirinale. Il populismo, amplificato dalla recessione e dal credit crunch, ha trovato praterie di fronte a sé e le previsioni sono per un aumento di queste ideologie. Ideologie complottiste, contro l’euro, contro l’eurozona e contro l’Europa, che però oltre a essere distruttive, peccano di concretezza e lungimiranza economica. L’orizzonte temporale a cui guardare sono le elezioni europee del maggio 2014, nelle quali saranno diverse le formazioni populiste ed euroscettiche. Dal Movimento 5 Stelle alla Lega Nord, passando per Forza Italia e il Front National francese di Marine Le Pen, il populismo viaggia spedito, dimenticando che però la soluzione alla crisi non è quella nichilista da esso proposta. Anzi, l’esatto contrario.
È per questo che l’eurozona ha messo in piedi i primi pilastri dell’unione bancaria. Sono nati il Single supervisory mechanism (Ssm), ovvero l’organismo di supervisione centralizzata delle banche dell’area euro, e sono state poste le fondamenta del Single resolution mechanism (Srm), il programma di risoluzione degli istituti di credito a livello di zona euro, che prevede anche il bail-in di cipriota memoria. Si tratta di due innovazioni importanti, che unite all’Asset quality review (Aqr) della Bce, ovvero la due diligence sulle banche dell’area euro, potranno servire a ristorare la fiducia degli investitori internazionali. Il problema è che sarà così solo nel caso in cui si utilizzerà il pugno di ferro, incuranti degli interessi nazionali che stanno a monte. Ciò significa che, nel caso dell’Aqr, non si dovranno fare sconti a Paese alcuno. Se come ha detto il numero uno della Bce, Mario Draghi, le verifiche patrimoniali saranno incisive e senza favoritismi, ci saranno diverse bocciature sia in Italia sia in Germania. Sono questi infatti i due Paesi nei quali i Non-performing loan (Npl, o crediti dubbi) sono i più elevati nella zona euro. Agire in modo realistico e netto è quindi una condizione necessaria per il pieno ritorno della normalità nell’eurozona. E poco importa se nel breve termine venga a mancare parte di quella calma apparente che ha caratterizzato questa area economica nell’anno che sta finendo. L’obiettivo è quello della stabilità nel lungo periodo.
L’altro grande problema sono le tempistiche. Troppo lunghe. Sia per Ssm sia per Srm, quindi i due pilastri cardine dell’unione bancaria, bisognerà attendere fino al 2025 prima che sia tutto a regime. Questo perché mettere d’accordo l’intera eurozona non è semplice: troppe economie diverse, troppi interessi nazionali diversi. L’unione bancaria sarà quasi certamente imperfetta, perché nel caso non lo fosse lo scettro del potere sarebbe in mano alla Bce, non alla Germania. A patire di questa situazione paradossale saranno i Paesi della periferia, che avranno sistemi bancari e creditizi sempre più autarchici e capaci di amplificare il credit crunch, invece che riprendere con l’attività di finanziamento delle Piccole e medie imprese (Pmi). Uno scenario già visto nel 2013 e che rischia di esplodere nel corso del 2014.
Tutto l’opposto sta succedendo al di là dell’Atlantico. Gli Stati Uniti corrono. E rischiano, tramite la droga erogata dalla Fed. A cinque anni dal collasso di Lehman Brothers, e dopo un bilancio passato da circa 700 miliardi di dollari a oltre 4.000 miliardi di dollari, la Federal Reserve ha iniziato il tapering del Qe. Ha deciso di assottigliare il volume di acquisti mensili di Treasury e Mortgage-backed security (Mbs), fino a oggi fisso a 85 miliardi di dollari al mese. Lo ha fatto perché l’economia americana ha ripreso la vivacità pre-crisi, nonostante un tasso di disoccupazione ancora oltre la soglia di attenzione. Eppure, dopo aver lanciato una eloquente forward guidance in maggio, Ben Bernanke non poteva più attendere. Gli investitori iniziavano a spazientirsi e per la Fed un ulteriore rinvio del tapering sarebbe significato perdere parte della propria credibilità. Sarà compito di Janet Yellen, la prima donna alla guida della Fed, gestire il pieno ritiro della liquidità in base ai dati macroeconomici che arriveranno settimana dopo settimana. C’è una certezza: l’exit strategy sarà graduale e bilanciata.
Il 2013 degli Usa è stato anche quello del grande ritorno di Wall Street. Il Qe ha provocato quella che è stata definita “Great rotation”: il cambio di allocazione delle risorse più massiccio degli ultimi decenni, dal fixed income all’equity, dalle obbligazioni alle azioni. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Sia il Dow Jones sia lo S&P500, i due principali indici azionari di Wall Street, hanno battuto tutti i massimi storici e probabilmente li batteranno ancora nei primi mesi del prossimo anno. Poi, una volta che il tapering del Qe della Fed progredirà, ci sarà un ritracciamento fisiologico. Gli investitori però sono ancora fiduciosi, specie in Corporate America e nei social media, e non bisogna attendersi una grande fuga da Wall Street, specie considerando che le alternative, eurozona in primis, non sono così attraenti. Meglio restare negli Usa, piuttosto che andare alla ricerca di ritorni troppo ballerini in zone ben più instabili. «Mal che vada, c’è la Fed», ha detto David Einhorn, gestore di uno dei maggiori hedge fund statunitensi.
Dei problemi del tapering dovranno preoccuparsi soprattutto chi con questa enorme mole di liquidità ha pasteggiato in abbondanza negli ultimi anni. Si tratta dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e dei sub-emergenti. Non è un caso che la Reserve Bank of India, guidata dall’economista Raghuram Rajan, abbia iniziato la creazione di una rete di protezione dagli effetti del Qe nello scorso settembre. Da un lato alzando il tasso d’interesse principale, dall’altro abbassando quello di riferimento per le banche, in modo da creare un canale di liquidità supplementare una volta che il tapering sarà a pieno regime. L’India non ha agito da sola. Anche la banca centrale brasiliana di Alexandre Tombini ha posto le basi per un controllo delle conseguenze del Qe. E durante il G20 di San Pietroburgo è stato trovato l’accordo fra i Brics per la nascita di un maxi fondo valutario, per un ammontare complessivo eguale a 100 miliardi di dollari, in grado di agire sul mercato forex in caso di squilibri nel post-Qe. Del resto, come spiegato dal Fondo monetario internazionale (Fmi) nell’ultima edizione del Global financial stability report (Gfsr), il tapering del Qe potrà costare fino a 2.300 miliardi di dollari a livello globale. Il tutto a causa delle perdite che saranno provocate su qualunque portafoglio obbligazionario mondiale – si stima un 5,6% di perdita media – a seguito dell’innalzamento medio di un punto percentuale del rendimento dei bond governativi. Fantascienza? Non proprio, dato che pochi giorni fa, per la prima volta da due anni il tasso d’interesse dei Treasury decennali ha superato quota 3 per cento. Tra squilibri macroeconomici interni, lacune di regolamentazione e vigilanza, possibili spillover del Qe, i Brics e i sub-emergenti hanno vissuto un 2013 in modo pericoloso, ma il peggio potrebbe ancora arrivare. Basti pensare alla Cina e agli shock del mercato interbancario che si stanno susseguendo con cadenza sempre più ravvicinata, complici un sistema creditizio quasi senza controllo e un segmento immobiliare traballante.
Meglio è andato, seppur di poco, al Giappone di Shinzō Abe. Il lancio dell’Abenomics, la nuova politica economica e monetaria per il rilancio del Paese dopo decenni perduti, ha iniziato a dare i suoi frutti. Le tre frecce nella faretra dell’Abenomics, cioè allargamento della base monetaria, investimenti strategici a pioggia, piano per la crescita economica, riusciranno a riportare il Paese agli antichi fasti? Forse sì, anche se i veri effetti della politica di Abe si vedrà solo nel lungo termine. Un segnale importante è giunto pochi giorni fa, quando nel bollettino mensile del governo la parola “deflazione” non ha trovato menzione per la prima volta da oltre quattro anni a questa parte. È il sintomo che qualcosa sta funzionando, che l’Abenomics potrebbe essere la soluzione, di lungo periodo, ai problemi del Giappone. Solo il tempo dirà se Abe aveva ragione.
Infine, l’Italia. Doveva essere l’anno della svolta, quello della ripresa, quello in cui lo spettro del bailout avrebbe lasciato spazio alla fiducia. Così non è stato. Anzi, il Paese appare ancora più diviso di prima. Appare totalmente incapace di guardare a un orizzonte temporale più ampio di due mesi. Ma soprattutto, appare incapace di rialzarsi e rinnovarsi, sebbene le occasioni per farlo ci siano state. Purtroppo, il 2013 dell’Italia è stato quello in cui, dopo un parziale ripristino della credibilità a livello internazionale, si è tornati a parlare di Roma in termini dispregiativi. Dall’estenuante balletto su IMU e IVA alla mezza farsa delle privatizzazioni, passando per una Legge di Stabilità incapace di rilanciare il Paese e un programma di riforme strutturali ancora tutto in divenire, Bruxelles e gli investitori internazionali hanno perso la pazienza e per riguadagnarla occorreranno sforzi rilevanti. Se il 2013 per l’eurozona è stato uno anno di transizione, così come per l’economia globale, per l’Italia si è trattato di un anno di regressione su più fronti: economico, finanziario, politico e sociale. E il pericolo è che il 2014 sia anche peggio.