Il fatto è…
I fratelli Wilbur e Orville Wright avevano un sogno che, da Icaro in poi, ogni tanto si infilava nel sonno delle persone più ardite e ingegnose. Finché nel pomeriggio di giovedì diciassette dicembre del 1903, il loro traballante Flyer, con Orville ai comandi e Wilbur a seguire ogni cosa da terra, svolazzò per la bellezza di quasi trecento metri, diventando il primo marchingegno a motore a volare da qua a là e dando il via all’era dell’aeronautica.
FRANZENFRITZ AIRLINES
La porta del laboratorio era chiusa dall’interno, a doppia mandata. Le narici del professore erano ispirate e inebriate dai fumi della sua stessa formula, ribollente nel pentolone della nonna, come la zuppa di cipolle e fagioli, della nonna pure lei. Un bicchiere di succo di barbabietola frullato e filtrato; un pizzico di noce moscata; sale quanto basta; un occhio di pipistrello; un cetriolino in agrodolce, più il tocco magico tanto segreto che nemmeno io lo so. Già la minestra non è il mio piatto preferito, ma dopo aver letto questa ricetta penso che dedicherò il resto dei miei pasti agli spaghetti e alle cotolette.
Non era per lo stomaco, però, che quella brodaglia ribolliva sul fuoco, bensì per un avveniristico marchingegno che il professore aveva messo insieme nottetempo sul terrazzo. Con lo sguardo spiritato annusava tutt’intorno e i peletti delle narici sfrizzolavano e titillavano che era una meraviglia.
Sul terrazzo – dicevo – lavorando nelle ore più buie della notte, il professor Franzenfritz aveva assemblato un marchingegno mai visto, senza che esistesse ancora un vocabolo per definirlo e per dargli una collocazione in ordine alfabetico nel dizionario enciclopedico. Intanto la brodaglia bolliva e ribolliva, e i fumi, e tutto il resto.
Un sedile in pelle di tricheco, imbottito con i pantaloni di non so chi, era al centro di ogni cosa, fissato con due bulloni. Tutt’intorno lo spazio era poco: appena sufficiente per farci stare le gambe, il sederone e per muovere le braccia e fare, eventualmente, ciao ciao con la mano. Sotto al sedile, piegata per bene, la tovaglia a quadretti dei pic-nic in campagna, in caso di necessità. Dietro al sedile un cuscino per poggiare la testa e riposare le vertebre del collo. Davanti al sedile un aggeggio a forma di U, fissato con un perno centrale, che permetteva di girare la U di qua o di là. Quell’insolito arnese sarebbe in futuro passato alla storia come U di Franzenfritz e se ne hai uno a casa sappi che è ormai un pezzo da collezione dal valore inestimabile.
Dentro una scatola di metallo, posta dentro una scatola di legno, all’interno di una scatola di cartone, un intricato insieme di viti e bulloni, brugole e tiranti, ingranaggi e chiavistelli, collegati uno con l’altro, che se muovevi il primo era una giostra stracolma di magia. Tutto stava nello scoprire quale di quelli fosse il primo…
All’esterno del marchingegno un bel pezzo della poltrona a dondolo Thonet, modello novecentotrè, faceva da elica e ti veniva voglia di soffiare per vederla girare. Alla destra e alla sinistra del sedile, fuori dall’abitacolo, la porta del bagno e quella della cucina, debitamente scardinate e riposizionate in orizzontale. Nella parte posteriore di tutto, dietro al cuscino, un metro e mezzo di tubo di latta e, simmetriche, le antine dell’abbaino del sottotetto, messe in orizzontale come le porte di qua e di là. Per finire, sotto il fondo, sotto il sedile e la tovaglia, le rotelle della bicicletta del nipotino che, ignaro, proprio nel pomeriggio era finito contro il cipresso del giardino, non riuscendo a gestire la pedalata in libertà.
Di fronte a tutto questo ben di dio, fatto di ali, elica, carlinga e cabina, il professor Franzenfritz se ne stava estasiato e soddisfatto con un bicchiere colmo della brodaglia ad affumicare l’ambiente. Con attenzione lo versò nel pappagallo del nonno, che faceva da serbatoio e si accomodò ad attendere sul sedile in pelle di tricheco.
Non passarono che pochi secondi, che l’insieme di aggeggi metallici cominciò a girare, stantuffando in sincronia, l’elica si mise a girare in senso orario, muovendo l’aria, le ali fremettero, le ruote si mossero e…
“È vivo, è vivo!” Urlava il professore, incredulo del proprio successo, e svolazzò nel buio della notte, che una civetta di passaggio svenne per lo spavento.
Va da sé che tanto trambusto risvegliò ognuno nel raggio di sei chilometri e in breve una piccola folla si radunò intorno al terrazzo. Nessuno, però, arrivò in tempo per ammirare il volo e l’unica fu liberare un’inorridita curiosità sul marchingegno diabolico.
La nonna, grugnendo, riprese il pentolone per la sua zuppa; il tricheco afferrò il sedile, la zia ripiegò la tovaglia a quadretti, lo zio agguantò la sua scatola di attrezzi, la prozia si pigliò il cuscino, il portiere rimontò le porte e le ante dell’abbaino, il nonno si rimpossessò del pappagallo e il nipotino incerottato si portò via le rotelle della sua bicicletta.
Alle prime luci dell’alba il professor Franzenfritz era solo sul terrazzo, inebriato dagli ultimi fumi della brodaglia, entusiasta per il volo, pur breve, e poco importa se, come sempre, nessuno avrebbe creduto a una sillaba del suo racconto.
Bevve un caffè e si coricò, che ormai era ora di dormire, e quel giorno sognò cose che nessun terrestre oltre a lui avrebbe potuto sognare.
Diritti per la foto di Delafosse
Chissà se i fratelli Wright hanno mai sognato, di giorno o di notte, un aereo come il loro che volasse a mille all’ora e anche molto di più. Visti i trespoli traballanti del loro tempo, che però all’epoca erano quasi fantascienza. Credo davvero di no.
Però senza il loro sogno realizzato – questo sì – di un aereo a motore, forse non saremmo mai arrivati a viaggiare nemmeno sul Concorde, unico velivolo commerciale, insieme al russo Tupolev Tu-144, a rompere, di molto, la barriera del suono.
A bordo di quell’aereo con il muso appuntito si viaggiava dall’Europa all’America, o viceversa, in circa tre ore e se avevi voglia e un po’ di soldi da buttare, potevi andare a Londra o a New York anche solo per il caffè.
Non volano più da dieci anni, i Concorde, ma l’idea di sfrecciare nell’aria, all’uomo non è per nulla passata.
Se hai paura di volare, non aprire questo file. Se non hai paura di volare, ma sei comunque impressionabile, questo video non fa per te. Se abiti vicino a un aeroporto prenditi un libro e pensa ad altro. In tutti gli altri casi siediti per due minuti e guarda cosa può succedere quando, in fase di atterraggio, si ha a che fare con un forte vento. Nulla di drammatico: niente morti, esplosioni o scene da film dell’orrore, ma poi ti passerà la paura di qualsiasi cosa, l’impressionabilità facile e la voglia di pensare ad altro. E complimenti ai piloti e agli equipaggi.
Vuoi provare a volare ma non hai il brevetto e nemmeno un jet nel garage? Vuoi fare il giro del mondo o anche andare solamente dalla fidanzata e atterrarle sul davanzale? Ti basta un computer che abbia installato Google Earth [http://www.google.it/intl/it/earth/index.html]: apri il programma, clicca su strumenti, poi su accedi al simulatore di volo, scegli l’aereo che più ti piace, scegli l’aeroporto da cui partire, decolla e buon volo!
Io sono già precipitato diciotto volte…
Luis Sepulveda – Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare – Salani
Molti questo libro lo hanno già letto; ancor di più sono quelli che hanno visto il cartone animato, stupendo, ma chi non avesse fatto né l’una, né l’altra cosa, è bene che si metta lì e le faccia entrambe. E chi avesse già letto o visto, può sempre rivedere e rileggere, che un libro e un film non sono mozzarelle: non si consumano e non hanno data di scadenza.
La storia del gatto Zorba e della gabbianella Kengah è sempre pronta a commuovere chi abbia voglia di trascorrere del tempo lasciandosi raccontare una storia, che sembra un po’ nuova anche se l’abbiamo sentita mille volte, come tutte le belle storie, che sono mille volte belle.
Quattro mesi prima per fratelli Wright, L’ingegnere tedesco Karl Jatho costruì il primo modello di aeroplano che, da buon tedesco, chiamò Flugzeug. Non senza emozione volò una ventina di metri a un metro di altezza dal suolo, che non era certo sufficiente per entrare nel libro dei record, ma fu comunque un’ottima occasione per brindare con gli amici.
Per poter stappare un’altra bottiglia, qualche settimana dopo fece un nuovo traballante tentativo, utilizzando un motore un po’ più potente. Questa volta la trasvolata fu di sessanta metri, a quattro di altitudine e Karl si sentì in dovere di portare gli amici fuori a cena.
Un mese dopo furono i fratelli Wilbur e Orville Wright a decollare, per davvero, e questa volta all’ingegner Jatho il boccone rimase sullo stomaco.
Asso dell’aviazione italiana fu senza dubbio Francesco Baracca. Durante la Prima Guerra Mondiale, che fu anche la prima a vedere l’uso degli aeroplani, fu lui a riportare la prima vittoria dell’aviazione in una battaglia tra le nuvole e i piccioni, colpendo e costringendo all’atterraggio di emergenza un aereo nemico. Una volta atterrato anche lui, subito si recò a verificare le condizioni del pilota abbattuto, stringendogli la mano per confortarlo, come si fa oggi alla fine di una qualsiasi partita di tennis.
Era un vero cavaliere, Francesco Baracca. Lo era nel vero senso della parola, perché prima di entrare in aviazione era proprio ufficiale di cavalleria, al trotto e al galoppo, e il simbolo che volle dipingere sui fianchi fu infatti un cavallino rampante. Enzo Ferrari, giovane pilota di automobilismo, ottenne il permesso di utilizzare lo stesso cavallino sulla carrozzeria della sua Alfa Romeo e, in futuro, fino a oggi, sulle rosse della sua scuderia.
Tra i piloti che hanno fatto la storia del volo, non si può dimenticare il colonnello Mario Pezzi. A lui non importava andare a New York o a Parigi, bensì volare più in alto che poteva, fino a raggiungere e toccare la stratosfera a bordo di un aeroplano. E nel 1937 riuscì nel suo intento, diventando una sorta di eroe nazionale. E tutti quei complimenti, i festeggiamenti, le onorificenze, le pacche sulle spalle e gli occhi dolci di tutte le ragazze devono averlo fatto ingolosire, al punto che l’anno seguente si migliorò ancora, superando i diciassettemila metri di quota, che è tutt’ora un record imbattuto.
Certo, oggi l’uomo viaggia sui razzi nello spazio, ma quelle imprese del colonnello Pezzi, per la tecnologia che aveva a disposizione, erano davvero un po’ come andare sulla Luna, facendo di lui una sorta di astronauta di quel dì.
Si chiamava Rosina la prima donna italiana a prendere il brevetto di volo, Rosina Ferrario. Lo ottenne e cominciò ad andarsene a spasso sopra le nostre teste, che anche oggi certo non è consuetudine di tutte, ma allora più che mai. Il suo brevetto fu il numero 203 e il suo istruttore nientemeno che l’ingegner Giovanni Battista Caproni, pioniere dell’aviazione e costruttore di aerei affascinanti e traballanti. Partecipò quindi a numerosi eventi ed esibizioni, finché arrivò la Prima Guerra Mondiale.
Rosina subito si offrì di pilotare voli di soccorso per conto della Croce Rossa, ma la cosa le fu negata in quanto donna. Allora si propose come istruttrice di altri piloti, ma anche questa idea fu bocciata. Scrisse, quindi, al ministro, per poter essere integrata nell’aviazione, ma di tutta risposta le fu fatto notare che non era prevista la presenza di signorine nell’esercito di Sua Maestà. Tutto sommato, meglio per lei.