Un problema dietro l’altro. Abbiamo già osservato come il 2014 sarà un anno complicato per le banche italiane. Ma se ancora non fosse chiaro, ecco che arriva l’outlook di Moody’s sul sistema bancario globale per il prossimo anno. E il quadro che emerge, come evidenziato dall’ultimo rapporto dell’agenzia di rating, è che gli istituti di credito italiani sono fra i più vulnerabili. I motivi sono noti: strutture bizantine, redditività in calo, grande presenza in portafoglio di titoli di Stato, suscettibilità agli shock esogeni. Ma è evidente che non bastano i moniti che sono giunti da Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea, Commissione europea e universo finanziario. Per il Tesoro continuano a non esserci problemi di solidità. I mercati dicono il contrario. E sullo sfondo, una guerra intestina alla Bce che sta entrando sempre più nel vivo.
L’agenzia di rating statunitense è solo l’ultima a lanciare l’allarme sullo stato delle banche italiane. Pesa il debito pubblico, incide la sua presenza nei portafogli dei colossi italiani, gravano modelli di sviluppo e governance che sono lontani da quelli delle compagini europee. Basti pensare al numero di filiali presenti in Italia e quelle presenti in Germania. Secondo un rapporto di Ernst & Young, il numero delle filiali degli istituti creditizi italiani è raddoppiato negli ultimi vent’anni. Nello stesso periodo storico, le banche tedesche hanno invece ridotto del 6% la presenza delle proprie filiali. Ora, come ricordava Bain & Company, è necessario tagliare l’intero sistema del 30 per cento. Il tutto con la speranza che non ci siano intoppi – vedasi un ritorno delle tensioni sui mercati obbligazionari della periferia dell’eurozona – e che sia sufficiente una riorganizzazione di questo genere. È per questo che Intesa Sanpaolo, UBI e Monte dei Paschi di Siena hanno annunciato, nei mesi scorsi, di voler tagliare il numero delle filiali di circa 3.000 unità, pari a 19.000 posti di lavoro, entro il 2015. Numeri che rientrano nel ridimensionamento resosi necessario con l’avvio della crisi legata al collasso del mercato immobiliare statunitense. A questo scenario di estrema difficoltà sul fronte interno si deve aggiungere ciò che sta per arrivare dall’esterno.
Una ulteriore tegola che infatti si potrebbe abbattere sugli istituti di credito italiani giunge direttamente dalla Banca centrale europea (Bce). Come ha spiegato il capoeconomista dell’Eurotower, Peter Praet, al Financial Times, l’intenzione è quella di dare un peso specifico, durante la prossima Asset quality review, ai bond governativi che sono detenuti in portafoglio dalle banche. Una mossa che è a doppio taglio. Su un fronte, è capace di fornire un quadro ben definito di quali siano i rischi. Gli investitori internazionali avrebbero quindi la possibilità di scegliere al meglio dove e come investire all’interno della zona euro. L’operazione trasparenza della Bce vuole proprio ottenere questo: un ritorno incondizionato della fiducia. Sull’altro fronte, tuttavia, l’idea della Bce ha ampi margini di discrezionalità e discriminazione. Pesare in modo diverso i bond governativi spalancare le porte dell’incertezza su chi negli ultimi due anni, per mitigare la fuga degli investitori esteri, ha acquistato ingenti quantità di titoli di Stato emessi dal proprio Tesoro nazionale. Ciò significa Spagna e Italia. Ma a differenza delle banche iberiche, le italiane non sono state oggetto di un bailout a livello comunitario, che ha permesso una profonda due diligence. Ecco perché i maggiori timori sulla prossima Aqr della Bce non sono relativi tanto al sistema bancario spagnolo, quanto a quello italiano.
È forse anche per questo che Mario Draghi ha ridimensionato le parole di Praet. Parlando a margine della sua audizione annuale al Parlamento europeo, il numero uno della Bce ha spiegato che non è uno dei compiti della Bce quello di decidere quanta incidenza deve essere data ai bond governativi negli stress test. Di contro, è una decisione che spetta al Comitato di Basilea, il consesso delle banche centrali mondiali. Così facendo, ha rimesso la scelta nei confronti di un’istituzione terza, imparziale per antonomasia. Non solo. Draghi ha inoltre rimarcato che i titoli di Stato saranno contati come tutti gli altri titoli di debito nel corso della Asset quality review. Nei fatti, un enorme regalo per le banche italiane, che potranno quindi non essere discriminate dagli investitori. Sarà cruciale la reazione di questi ultimi, che potrebbero non veder bene un comportamento di questo genere, così poco incisivo.
L’impressione è però che la partita abbia appena iniziato a entrare nel vivo. Germania e Francia, i cui sistemi bancari hanno risentito meno dei tumulti della zona euro negli ultimi due anni, chiedono che l’Aqr sia invasiva, profonda e dura. In pratica, nessuno sconto a nessuno. Il tutto anche a costo di una minore stabilità finanziaria nel breve periodo. Meglio sacrificare questo punto, accettando un ritorno delle tensioni sulle banche italiane, nel breve ma poi avere una prolungata stabilità sistemica nel lungo. Opposta è l’opinione di Draghi e degli italiani, che invece preferiscono un approccio più soft e, soprattutto, meno discriminatorio. Il fronte di chi desidera un atteggiamento più incisivo sta però aumentando. Come fa notare a Linkiesta un senior trader della divisione Fixed income di Société Générale «serve chiarezza estrema, è l’ultima occasione che ha la Bce per ripristinare la fiducia». Solo in questo modo, spiega, è possibile che «le banche tornino ad aiutare le imprese, dato che vedrebbero una significativa riduzione dei costi di funding nel caso siano fugati tutti i dubbi sulla solidità intrinseca». Per questo, meglio un esercizio netto e rigoroso, piuttosto che uno lacunoso e inconcludente.
Le raccomandazioni del Fmi, arrivate solo pochi mesi fa, sono per ora rimaste inascoltate. Ma per le banche italiane il momento cruciale è vicino. Senza risposte precise non potrà esserci il ritorno, tanto sperato, degli investitori esteri. E alla prima difficoltà, tutti i problemi del nostro sistema bancario si ripresenteranno, con più vigore che mai.