Torino film festivalBelli i vampiri di Jarmusch, angeli dark dell’amore

Il meglio del Torino Film Festival

Le classifiche sono sempre scivolose: riempiono caselle e così facendo producono lacune. A leggere quelle che iniziano a prodursi sui film migliori dell’anno, colpisce l’assenza inammissibile di uno dei più bei film degli ultimi tempi: Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch. Passato quasi inosservato al concorso di Cannes, molto sottovalutato dalla critica internazionale, è stato meritoriamente presentato fuori concorso al Torino Film Festival (il festival si è chiuso con questo palmarès ma ne parleremo più avanti perché le gerarchie hanno ancora un senso).

Ancora non fissata l’uscita italiana di Only Lovers Left Alive, ma subito consigliamo, appena dovesse comparire, di riversarsi nelle sale, per vedere questa crypto-vampire love story (definizione del regista) sull’arte e i sentimenti, la dipendenza e l’indipendenza, l’oscurità e la purezza. Imperdibile.

Genialmente innestato sul genere dell’horror di vampiri, il film è il racconto di un amore che attraverso i millenni è giunto in questo quadrante della storia, un po’ esausto e annichilito, tra due leggendari santi bevitori di sangue, filiformi e cupamente angelici con le sembianze di Tilda Swinton e Tom Hiddleston. Lui si chiama Adam e vive nella Detroit fantasma della deindustrializzazione, dove scrive e ascolta musica rock rigorosamente con impianti analogici e vinili e compra plasma sottobanco all’ospedale cittadino; lei invece è Eve e sta a Tangeri, luogo di esotiche decadenze per occidentali, dove non c’è più tè nel deserto ma bicchierini di sangue dentro la Kasba tra facce arabe e Christopher Marlowe, redivivo scrittore vampiro che si è firmato per il teatro col nome di un certo William Shakespeare (così lo immagina Jarmusch, così lo interpreta strepitosamente John Hurt). La separazione oceanica non si sostiene più e così lei lo raggiunge, in quella città americana diretta verso il nulla. E qui l’arrivo della sorella di Eve complica le cose irreparabilmente. Addio America.

I nostri antieroi sono a disagio nella modernità, epoca senza romanticismo e di passioni morenti. In questo panorama di rovine, di tutta una civiltà al tramonto, con quei teatri in abbandono che rimandano alla fine di Hollywood di The Canyons di Paul Schrader, anche i due amanti pur millenari sono in pericolo di scomparsa: nella decadenza, il sangue sta finendo. Occorre colpire nuovamente al collo: ma non ammazzando, ché Adam ed Eve sono pacifici disadattati trascendenti, ma affiliando alla religione dei cercatori di sangue altri uomini e altre donne. Purché sappiano cos’è l’amore.

Jarmusch realizza un film perfetto, formalistico ma non autocompiaciuto, puro e antiesibizionista (nemmeno un nudo, appena qualche lembo di pelle, radi baci). Inseguito dal regista (qui anche unico sceneggiatore) per molto tempo, fino a trovare la quadratura produttiva del cerchio tra Germania, Francia, Cipro e Stati Uniti. Poesia dark, notturna e decadentista, crepuscolare e precisa, per una storia tutta concentrata sui suoi magnetici personaggi. Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen, premiato a Cannes e lodato molto di più (presentato anch’esso a Torino), ugualmente costruito sulla figura di un musicista e sul senso di inadeguatezza esistenziale rispetto al proprio tempo, al confronto con Only Lovers Letf Alive sbiadisce. Ed è tutto dire.

Revival americano 

Di segno americano sono stati gli episodi migliori di questo Torino Film Festival, più virato al pop per scelta del neodirettore Paolo Virzì, che ha avuto soddisfazione dalla sua guida (+34% incassi, proiezioni esaurite) e attende analoghe gioie a gennaio quando uscirà il suo prossimo film, Il materiale umano, un thriller lombardo-finanziario tratto da un gran romanzo di Stephen Amidon, ex critico cinematografico del Financial Times e del Sunday Times e a Torino nella giuria del concorso.

Stupenda la retrospettiva sulla “New Hollywood” degli anni Sessanta-Settanta, che avrà il suo secondo tempo nell’edizione dell’anno prossimo. Curata dalla vice direttrice Emanuela Martini, ha offerto uno sguardo certo parziale ma assai suggestivo con 36 film di quella splendida stagione di indipendenti. Tra le molte perle, assolutamente da ricordare il modernissimo Vanishing Point di Richard Sarafian, storia di reduce del Vietnam ed ex poliziotto che attraversa l’America a bordo di una Dodge Challenger col preciso scopo di non fermarsi mai fino all’arrivo a San Francisco, e Night Moves, noir su una ragazzina scomparsa e una Hollywood depressa e sbandata dell’immenso Arthur Penn.

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Giovani promesse

Il concorso non ha offerto molte sorprese, pieno di riprese da altri festival, con la buona prova italiana di Pif sulla mafia di cui abbiamo parlato qui e che ha ottenuto il premio del pubblico. La giuria presieduta dal grande sceneggiatore messicano Guillermo Arriaga (Amores perros, 21 grammi, Babel, Le tre sepolture) dà il massimo riconoscimento al messicano Club Sandwich di Fernando Eimbcke, film centrato sul rapporto (più amicale che parentale) tra una madre trentenne e suo figlio adolescente; premio speciale a un ultra-medio film francese d’amore come 2 automnes 3 hivers di Sébastien Betbeder; di nuovo Sudamerica con due premi al venezuelano Pelo Malo di Mariana Rondòn con ancora al centro una madre e sua figlia nella periferia di Caracas; infine sempre famiglie alla sbando con il canadese Le démantèlement di Sébastien Pilote.

Avessimo dovuto esprimere la nostra scelta, inevitabilmente sarebbe caduta su Blue Ruin che già a Locarno aveva incantato. Ne scrivevamo così:

Non sapevamo che dalle parti della Virginia si aggirasse una reincarnazione (appena più longilinea) di Peter Lorre alle prese con una vendetta familiare, la cui oscurità oscilla tra la tragedia e la black comedy. Lo sceneggiatore, regista e operatore Jeremy Saulnier ha dalla sua un copione semplice e compiuto come un teorema e soprattutto un attore eccelso che risponde al nome di Macon Blair. I due sono amici dall’infanzia e hanno giustamente pensato che valesse la pena dar fondo alle personali carte di credito e farsi prestare (senza rientro) la macchina vecchia di papà Saulnier, pur di realizzare Blue ruin. Grandissimo film.

Confermiamo e ci scandalizziamo per come sia stato del tutto ignorato dalla giuria.

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Sorelle, sisters, hermanas

L’espediente hitchcockiano della tensione nel mettere in scena due sorelle gemelle interpretate dalla medesima attrice innerva il vecchio Sisters di Brian De Palma (presentato in “New Hollywood”) e ritorna in un altro film, uscito quest’anno, proveniente dalla Spagna: Canìbal di Manuel Martìn Cuenca. Dal romanticismo sanguinante di Only Lovers Left Alive qui si passa al racconto gelido della carnalità esanime: Carlos è un elegante e silenzioso sarto di Granata cui piacciono le donne per ucciderle e mangiarsele. Il macabro ritratto del serial killer potrebbe suggerire scene pulp, ammazzamenti, effetti di disgusto di ogni categoria. E invece Cuenca utilizza uno stile controllatissimo, tutto di sottrazione, con eleganti soluzioni di messinscena e un sapiente utilizzo dei suoi bravissimi attori (Antonio de la Torre e Olimpia Melinte). Carlos si innamora della sorella di una sua vittima e forse in questo rapporto potrebbe trovare un rimedio alla sua malattia, ma… Cuenca sa creare e reggere la tensione, dimostrandosi regista davvero notevole. Forse il difetto è nell’eccessiva lunghezza della seconda parte del film, che avrebbe potuto essere semplificata. Suggestivi e non pacchiani i riferimenti buñueliani ai riti della religione cattolica. Una bella scoperta.

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Ghetto modello

Dagli orrori di finzione a quelli reali: lo sterminio nazista degli ebrei. Claude Lanzmann, che documentò il genocidio nel suo capolavoro Shoah, ha portato un nuovo capitolo di quella storia cupa e terribile, L’ultimo degli ingiusti, presentato prima a Cannes e poi a Torino. In cui si racconta la storia di Benjamin Murmelstein, già rabbino capo di Vienna, obbligato dai nazisti a presiedere il Consiglio degli Anziani del presunto (e totalmente falso) ghetto modello di Terezin, che Hitler volle nei pressi di Praga. Una delle pagine più tremende, dove il potere crea perversi meccanismi di sopraffazione all’interno della stessa comunità sopraffatta, una situazione quasi insostenibile, tanto che i due predecessori di Murmelstein all’incarico preferirono uccidersi pur di non svolgere quel ruolo: Murmelstein era obbligato a scegliere e pubblicamente comunicare le persone da trasferire ad Auschwitz, dopo la guerra sarà accusato di collaborazionismo, e nel processo assolto. Vivrà a Roma il resto della sua vita. A Roma lo intervista Lanzmann negli anni Settanta e da quel materiale a distanza di anni ricava L’ultimo degli ingiusti. In cui Murmelstein si difende con tutti i propri mezzi, spiegando come da quella posizione abbia potuto salvare la vita a molte persone già destinate alla morte. La profondità tragica di questa storia ritorna in un altro film documentario, presentato sempre a Torino: Wolf di Claudio Giovannesi. Che è il racconto del figlio di Murmelstein, Wolf appunto, il quale dà la propria versione della tragedia paterna e della lunga umiliazione che lo ha colpito. I Murmelstein non furono mai accettati dalla comunità ebraica romana, Wolf ricorda che al funerale del padre era da solo con la propria moglie. E nessun altro. Difende l’operato del padre. E rifiuta di andare sulla sua tomba, perché l’impressione di vederla così dimenticata e mal ridotta lo farebbe stare ancora più male. Un documentario che assomiglia a un thriller psicologico, grazie alla presenza di uno psichiatra amico di Wolf che prova ad aiutarlo nel racconto traumatico del padre. Bella prova di uno dei più bravi fra i giovani registi italiani, cui è andato il premio speciale della giuria di Italiana Doc.

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Grecia violenta 

Michalis Konstantatos ha 36 anni, ha studiato cinema e architettura, dirige una compagnia teatrale ad Atene e del suo Paese offre uno sguardo lucido quanto brutale col suo esordio nel lungometraggio, Luton, film che conferma il valore del cinema ellenico, che con la sua crudeltà tematica ed espressiva è forse il termometro più immediato e potente della condizione drammatica che la Grecia sta attraversando. Con uno stile secco e molto consapevole nonostante si tratti di un’opera prima, Konstantatos mette in scena le vite di tre persone tra loro diversissime: un’avvocatessa trentenne non troppo rampante, anzi piuttosto incolore; un liceale benestante e parecchio svogliato, a scuola e nella vita; un gestore di un minimarket, uomo mediocre più che medio. Le loro vite senza punti di contatto sono raccontate in parallelo, nella loro quotidianità senza slanci segnata da appuntamenti senza importanza, atti sessuali mal vissuti, assenza totale di orizzonte. A un certo punto, però, a due di loro giunge un identico sms: «L’ultima volta è stato bellissimo, rivediamoci stasera». Così i tre si incontrano e non sarà un bel vedere. Luton ci spiega come fenomeni alla Alba Dorata non siano staccati dal corpo sociale, non riguardino una sfera separata dell’ideologia, ma anzi vivano sulle paure sociali del grosso della popolazione, siano il volto oscuro e pauroso del malessere comunitario. Il fatto che l’uomo sia un essere malato di violenza, fa il resto. E Luton? Luton è un luogo dell’Inghilterra che lo studente dovrà raggiungere per frequentarvi un college: lontano dalla Grecia, lontano dalla famiglia in cui è come un estraneo. Lontano da tutto, ma assai probabilmente verso lo stesso niente.

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