La più grande sfida per l’eurozona, nel 2014, prende il nome di deflazione. Il calo del livello generale dei prezzi al consumo continua a essere una minaccia e prende maggiore vigore ogni mese che passa. Ecco perché la Banca centrale europea continua a ribadire si essere pronta a intervenire in qualunque momento. C’è infatti un problema che si sta ingigantendo giorno dopo giorno, e sarà forse più evidente una volta terminate le festività natalizie. Per le economie della zona euro, a esclusione della Germania, l’inflazione non è mai stata così bassa.
Non sarà un 2014 facile per l’istituzione guidata da Mario Draghi. La recessione sta lasciando spazio a una fragile e disomogenea ripresa, che avrà una caratteristica comune sia per la periferia sia per il cuore della zona euro: la dipendenza dagli ordinativi esteri. Ma a fare compagnia a questo clima precario c’è una deflazione che aleggia e che potrebbe frenare il ritorno alla normalità della zona euro. Come segnalato oggi da Eurostat, l’inflazione nell’eurozona è salita dello 0,9% su base annua. Ben sotto, quindi, al target della Banca centrale europea (Bce), il 2 per cento. E non basta un miglioramento di due decimali rispetto al valore di ottobre per far tirare un sospiro di sollievo. La situazione più difficile è localizzata proprio nelle zone più colpite dalla crisi.
Evitare il peggio è il mantra. L’obiettivo della Bce è che il «prolungato periodo di bassa inflazione», termine usato durante le ultime uscite pubbliche dei funzionari dell’Eurotower, non si trasformi in un momento di deflazione pura. Nei fatti, già diversi Paesi stanno sperimentando un significativo calo dei prezzi al consumo. Fra questi troviamo Italia, Irlanda e Grecia. Queste economie stanno infatti registrando, da diversi mesi consecutivi, un abbassamento dei prezzi al consumo che non fa altro che riflettere la scarsità della domanda interna. Questa infatti costringe gli esercenti a ridurre i margini che hanno sui prodotti e, di conseguenza, i prezzi dei beni al dettaglio. Un circolo vizioso.
Solo la Germania, unico Paese nell’eurozona, non sta subendo pressioni al ribasso dei prezzi. È quanto evidenziato da Danske Bank nel suo Euro Area Deflation Index. I Paesi più a rischio deflazione, nei prossimi mesi, sono sei: Italia, Irlanda, Portogallo, Francia, Spagna e Grecia, che però già è entrata in questa spirale. Più passa il tempo, più si rende difficile il ritorno alla normalità delle attività economiche, più si rischia la degenerazione. Quello che è sicuro, spiega la banca danese, è che le maggiori economie della zona euro sono già da considerarsi sull’orlo della deflazione in base ai dati incrociati di inflazione, indici Purchasing managers’ index (Pmi), crescita, disoccupazione e crescita dei salari. Ed è una spirale mortale quella che potrebbe essersi creata nei mesi scorsi. Secondo Goldman Sachs si tratta di un mix di misure di consolidamento fiscale mal adottate e mancanza di riforme strutturali.
Come ricorda anche Danske Bank, deflazione significa anche meno Prodotto interno lordo (Pil). E meno Pil significa che sarà ancora più difficile per i Paesi largamente indebitati ridurre il proprio fardello. Occhi puntati, quindi, su Italia e Grecia, ma anche sulla Francia. Se il trend ribassista sui prezzi dovesse continuare, questi Paesi potrebbero non rispettare gli impegni di riduzione del debito, con un conseguente maggior respiro sul fronte degli interessi pagati sul debito stesso. «Ci attendiamo che i prossimi mesi siano cruciali per capire quanto saranno divergenti le economie della zona euro. La deflazione è un ottimo segnale in questo senso, così è possibile capire quali siano le reali spaccature all’interno dell’eurozona», scrive Danske Bank.
Cosa può fare quindi la Bce? Può cercare di rivitalizzare, ancora una volta, il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. La deflazione non è che un sintomo. Il problema è ben maggiore. Se i prezzi al consumo calano è perché c’è una contrazione della domanda. Se c’è un rallentamento della domanda, è soprattutto a causa della precarietà dell’economia italiana. Meno producono le imprese, meno possono far circolare denaro, meno possono esserci consumi. Nei fatti le banche italiane continuano a non avere intenzione di assumersi rischi nel finanziamento delle Piccole e medie imprese (Pmi), complice una presenza asfissiante di titoli di Stato nei loro portafogli. Come ha registrato l’Associazione bancaria italiana (Abi), in novembre sono ancora calati i prestiti bancari verso famiglie e imprese. Meno quattro punti percentuali, dopo la flessione di 3,7 punti di ottobre. Ed è questo il peggior dato dal 1999. Le prospettive non sono buone. Come spiegato dal capoeconomista dell’Abi, Gianfranco Torriero, «è difficile immaginare che torni una domanda di credito sana se non ci sarà un riequilibrio macroeconomico e finanziario». E affinché ci sia questo, è facile attendersi un nuovo intervento della Bce. Come? Le armi sono quelle conosciute: dalle operazioni di rifinanziamento a lungo termine ai tassi negativi sui depositi, passando per agevolazioni sui collaterali e ovviamente un nuovo taglio del tasso d’interesse principale. Il problema, semmai, è il quando. Un’azione per il sostegno delle economie periferiche deve essere più come mai immediato, anche visto l’arrivo del tapering (assottigliamento, ndr) del Quantitative easing della Federal Reserve. Così pensa Morgan Stanley in una nota riguardante Italia e Spagna. Il pericolo, in caso di tentennamenti, è il peggioramento di una situazione già grave, anche se non emergenziale.