La caduta dei giganti. O meglio, l’inizio della fine del bluff messo in atto dalla Banca centrale europea. Standard & Poor’s ha declassato l’Unione europea. Via la tripla A, ecco una poco onorevole AA+, seppur con un outlook stabile. Apriti cielo. Sdegno e rabbia arrivano da Bruxelles. Gli eurocrati sono sicuri che l’agenzia di rating americana stia commettendo un errore. In realtà, la visione che S&P dà all’Europa è proprio quella che hanno tutti coloro i quali la osservano da un punto di vista esterno. Un’area con enormi problemi gestionali e un sistema di gestione delle criticità troppo caotico, ai limiti del grottesco.
Era possibile una soluzione diversa? Secondo S&P no. Secondo gli investitori finanziari neppure, data l’assenza di sussulti significativi sulle Borse europee, che lasciano intendere che il declassamento fosse già prezzato. Secondo l’Ue, invece, l’agenzia di rating non ha tenuto conto di tutti i progressi fatti finora per superare la peggiore crisi della storia dell’euro. «Siamo in disaccordo, i motivi del downgrade sono opinabili», ha detto il commissario Ue agli Affari economici e monetari Olli Rehn. Parole che però devono essere ridimensionate con gli interessi politici di Rehn, che punta a essere il prossimo presidente della Commissione Ue, dopo José Manuel Barroso.
Le ragioni di S&P sono comprensibili. E ci sono quattro ragioni per cui si può serenamente prendere atto che l’Ue doveva essere declassata. La prima è legata alla sua governance. Il sistema di potere diviso fra Commissione europea, Parlamento europeo, Ecofin, Eurogruppo e Consiglio europeo rende l’adozione delle riforme necessarie all’Ue, ma anche e soprattutto all’eurozona, particolarmente laboriosa e lunga. In altre parole, le risposte alla crisi sono arrivate molto spesso in ritardo al dovuto. Un esempio sono gli stress test sul sistema bancario. Dopo due tornate praticamente fallimentari a cura della European banking authority (Eba), ora sarà la Bce a prendersi cura di ristorare la fiducia degli investitori internazionali verso le banche dell’eurozona. Questo è anche colpa di una Unione economica e monetaria che è stata costruita su pilastri troppo deboli per sopravvivere ai venti di crisi. Troppe nazioni con economie troppo differenti, a cui si aggiungono politiche nazionali, esigenze e interessi particolari divergenti. Il risultato è un calderone in cui c’è un paradosso significativo. Da un punto di vista meramente relativo alle costituzioni nazionali, i Paesi membri contano poco all’interno del processo decisionale dell’Ue. Piuttosto, dovrebbero contare di più. La conseguenza è che questo processo deve per forza passare da istituzioni terze, ma che hanno un iter tanto burocratico quanto lento. Di fronte a questa evidente lacuna, cosa avrebbe dovuto fare Standard & Poor’s?
La seconda ragione è invece relativa ai passaggi chiave per uscire dalla crisi dell’eurozona. Si tratta di un aspetto che è dipendente dal primo motivo. Troppo farraginosi, troppo lenti, troppo lacunosi. Basti pensare all’unione bancaria che oggi è celebrata come il punto di svolta della crisi e il primo mattone della nuova eurozona, che sarà – almeno nelle intenzioni degli euroburocrati – la più forte di sempre. La realtà, lo abbiamo visto pochi giorni fa, è che solo nei prossimi dieci anni si avrà il pieno completamento di una parte fondamentale dell’unione bancaria, ovvero il backstop scheme, che gestirà il periodo di transizione delle banche in difficoltà. Un’unione bancaria imperfetta che farà chiedere sempre di più ai mercati finanziari. E dato che questo “di più” altro non è che l’unione fiscale, è facile comprendere quali saranno i problemi procedurali affinché questa cruciale innovazione europea avvenga.
Il terzo motivo sono le future elezioni europee, che si terranno nel prossimo maggio. L’orda del populismo avanza sempre più e, nel rissoso e poco lungimirante mondo della burocrazia comunitaria, è sempre più evidente che si è perso del tutto il contatto con la realtà. Più i cittadini europei non ricevono risposte sui problemi che più li impensieriscono – disoccupazione e crisi economica, secondo l’ultimo Eurobarometro – più prendono piede le idee populiste e nazionaliste. In quest’ottica, il clima di tensione all’interno della zona euro è destinato ad aumentare più si avvicinano le Europee 2014. Data l’assenza di risposte coordinate e decise, cosa avrebbe dovuto fare S&P? La debolezza dell’Europa non è solo economica. È prima di tutto politica. Non spiegare ai propri cittadini cosa sta succedendo, o farlo nel modo sbagliato, ne è la prova.
Infine, la più importante delle motivazioni. La fase più virulenta della crisi dell’area euro non è stata superata grazie all’Ue, bensì alle Bce. Se non ci fosse stato l’intervento di Mario Draghi alla Global Investment Conference del 26 luglio 2012 a Londra, le tensioni sarebbero ancora fra noi. È grazie a una frase, prima, e un programma di acquisto di bond governativi sul mercato obbligazionario secondario, dopo, se si è stabilizzata la situazione. «Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough». Questa la frase. Outright monetary transaction (Omt). Questo il programma per i bond. O meglio, il bluff. Primo perché non è ancora stato testato dai mercati finanziari, secondo perché non è ancora chiara la sua potenza di fuoco effettiva. Troppe sono le incognite alle Omt, che sono state una vera e propria prova di forza nei confronti dei mercati finanziari, troppo scettici, e dell’Unione europea, troppo lassista e litigiosa.
Il downgrade di S&P è un segnale, un monito. La crisi finanziaria può anche essere finita, ma ne restano altre tre: economica, sociale e politica. Sul primo fronte, l’evidenza è sotto gli occhi di tutti. La disoccupazione è in aumento e solo nel corso del prossimo anno si stabilizzerà. La recessione ha lasciato spazio alla stagnazione e i livelli di crescita pre-crisi non saranno toccati prima del 2016. Il debito pubblico rimane elevatissimo e ha una dinamica ascendente. Sul secondo versante, lo strascico della crisi economica sta mettendo a dura prova i nervi dei cittadini europei che si danno sempre più a manifestazioni di rabbia, come successo in Italia coi Forconi (e tutti gli altri). E sotto il profilo politico, la battaglia per gli scranni delle istituzioni europee, dalla Commissione al Parlamento, non farà altro che amplificare le divergenze all’interno di un’Europa che ha perso la bussola e che non ha nemmeno un sestante per navigare fuori dalle acque della crisi. Perché stupirci, quindi, della decisione di S&P?