Il momento della verità sta arrivando. Il 18 dicembre si saprà se la Federal Reserve statunitense inizierà il tapering, cioè l’assottigliamento, del Quantitative easing (Qe) nella sua terza versione. Prende piede, alla luce dei recenti dati sul tasso di disoccupazione, l’idea di un avvio dell’exit strategy già nell’anno in corso. Tecnicamente è possibile, ma i policymaker della Fed potrebbero optare per l’attesa di un consolidamento del trend discendente della disoccupazione. Tradotto: inizio del tapering nel primo trimestre del prossimo anno.
Dopo una lunga serie di ballon d’essai, pochi giorni fa è arrivato l’ultimo. A lanciarlo è stato il numero uno della Fed di Chicago, Charles Evans. «È palese che siamo molto aperti alla possibilità di cominciare il tapering a dicembre, ma io preferirei attendere», ha detto Evans. Parole molto caute, ma che rientrano nella forward guidance della Fed, iniziata dal presidente Ben Bernanke alla fine della scorsa primavera. Il pericolo massimo, già evidenziato nei mesi scorsi, è che una riduzione del volume mensile di acquisti di asset possa impattare sulle economie emergenti. Attualmente la Federal Reserve compra 85 miliardi di dollari di asset al mese, 45 miliardi in Treasury e 40 miliardi in Mortgage-backed security (Mbs). Il Fondo monetario internazionale (Fmi), nel suo Global financial stability report (Gfsr), ha fatto notare che le conseguenze del tapering possono essere rilevanti per tutta l’economia globale. Il ritiro degli stimoli monetari della Fed, infatti, potrebbe costare circa 2.300 miliardi di dollari. È questa la somma che deriva dalle stime sulle perdite che potrebbero patire i portafogli obbligazionari mondiali a seguito del tapering. Il Fmi ha calcolato che l’assottigliamento del Qe3 potrebbe innalzare di un punto percentuale, in media, i rendimenti dei bond governativi di mezzo mondo. Questo provocherebbe perdite del 5,6% su qualunque portafoglio. Ecco come si arriva alla cifra monstre di 2.300 miliardi di dollari. Numeri che, se confermati, saranno capaci di minare alla crescita globale.
A supporto dell’avvio dell’exit strategy a dicembre ci sono i dati, molto positivi, sulla disoccupazione. In novembre, secondo i calcoli del Bureau of Labour Statistics (Bls), il tasso di disoccupazione è sceso al 7 per cento. Si è trattato del livello più basso dal novembre 2008, appena dopo il collasso di Lehman Brothers. Una sorpresa sia per la Fed sia per le banche d’investimento, che si attendevano un miglioramento, ma non così significativo. Allo stesso tempo, è stata positiva, oltre le previsioni, anche la crescita del Pil nel terzo trimestre, più 3,6 per cento. E proprio sui dati è la battaglia maggiore. Il capo della Fed di St.Louis, James Bullard, ha ieri reiterato che «ogni decisione del Federal open market committee (Fomc, il braccio operativo della banca centrale americana, ndr) dovrà essere dipendente dai dati macroeconomici». In quest’ottica, non bastano due mesi consecutivi di progressi ad aprire le porte all’uscita dalle politiche monetarie non convenzionali.
Nonostante i dati positivi, e nonostante l’apertura di diversi membri del board della Fed, l’impressione è che l’assottigliamento del Qe3 sarà un affare riservato al prossimo numero uno della banca centrale statunitense, Janet Yellen. E considerando che la Yellen ha un approccio molto prudente, è facile che il tapering sia iniziato solo sul finale del primo trimestre del prossimo anno. «La Fed ha bisogno di avere più dati a disposizione. Non riteniamo che questi siano sufficienti», hanno scritto gli strategist di Morgan Stanley. Quello che è certo è che gli investitori hanno bisogno, e lo stanno chiedendo a gran voce, di maggiore chiarezza.
Quella di dicembre potrebbe essere l’ultima occasione per la Fed di dare un segnale netto ai mercati finanziari. Le critiche alla forward guidance son già elevate ora e l’imperativo, per evitare situazioni di incertezza o stress, è fornire indicazioni chiare. A guidare la protesta, nemmeno troppo silenziosa, contro l’atteggiamento ballerino della Fed e dei suoi componenti è Goldman Sachs. Il suo capoeconomista Jan Hatzius non ha usato mezzi termini: «Quella vista finora è una forward guidance fallimentare, e francamente ci interessa poco sapere cosa succederà nel breve termine, c’è bisogno di chiarezza sul lungo periodo». Una frase che cela tutta l’insoddisfazione per una mossa, quella di Bernanke, che doveva tranquillizzare e invece sta impensierendo gli operatori. Molto critico anche l’altro colosso di Wall Street, J.P. Morgan. Per la banca guidata da Jamie Dimon, sulla stessa linea d’onda di Goldman Sachs, servono linee guida chiare e decise. In assenza di queste, la pianificazione degli investimenti, e la scelta di allocazione delle risorse, potrebbe essere ai limiti dell’irrazionalità. E mai come in questo momento c’è bisogno di razionalità.