«Il 2014 sarà l’anno della svolta. Non solo per l’economia, ma anche e soprattutto per le riforme istituzionali, che saranno complete e compiute». Il presidente del Consiglio Enrico Letta lo ha ripetuto pochi giorni fa, durante la conferenza stampa di fine anno. È la grande scommessa del suo esecutivo. Del resto il governo era nato proprio con questo obiettivo: una nuova stagione di larghe intese per cambiare la legge elettorale, riscrivere la Costituzione, rendere le istituzioni più moderne ed efficienti. Otto mesi dopo l’insediamento a Palazzo Chigi è evidente che quasi tutto resta da fare. Anche se qualche risultato è già stato raggiunto.
È il caso di alcune piccole riforme “virtuose”, volute dal premier Letta per riavvicinare la politica al Paese. Il taglio degli stipendi della squadra di governo, ad esempio. In pochi lo ricordano, eppure lo scorso maggio è stato il primo provvedimento dell’esecutivo. Un decreto per eliminare gli emolumenti riservati ai ministri che già percepivano l’indennità da parlamentare. Piccola cosa, forse. Che pure il premier ha rivendicato con orgoglio parlando con la stampa pochi giorni fa. «Costi della politica? Tanti parlano ma pochi fanno. È facile fare dei tweet, noi abbiamo dimostrato di parlare con i fatti. Abbiamo eliminato lo stipendio del presidente del Consiglio. E se qualcuno lo vorrà ripristinare, dovrà approvare una legge». Provvedimenti attesi, seppure simbolici. Fanno parte dello stesso filone gli interventi varati a Palazzo Chigi nella settimana di Ferragosto. Primo su tutti, la riduzione delle autoblu e dei voli di Stato assegnati alla Presidenza del Consiglio.
Ha avuto molta più visibilità il tentativo di abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Un intervento avvenuto in due fasi. Inizialmente l’esecutivo ha provato la strada di un disegno di legge. Un provvedimento presentato in Parlamento la scorsa estate e approvato dalla Camera dei deputati il 16 ottobre scorso. Per evitare troppi ritardi, qualche settimana fa Palazzo Chigi ha cambiato strategia. Presentando un decreto legge in grado di imprimere un’accelerazione alla riforma (proprio in questi giorni il Senato ha incardinato il ddl di conversione). «Avevo promesso l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti entro l’anno – ha annunciato trionfante Letta il 14 dicembre – Ora in Consiglio dei ministri manteniamo la promessa». Nessun colpo di mano, il testo licenziato dal governo è lo stesso approvato in prima lettura da Montecitorio. Il principio è uguale: dal prossimo anno il finanziamento diretto ai partiti sarà gradualmente ridotto, fino a scomparire nel 2017. Al suo posto entrerà in vigore un sistema di finanziamento «fondato sulle libere scelte dei cittadini». Dal 2 per mille dell’Irpef alle agevolazioni fiscali per le erogazioni dei privati.
Merita un discorso a parte l’impegno dell’esecutivo per l’eliminazione delle province. Tentativo di riforma istituzionale più volte azzardato dai precedenti governi, ma finora mai riuscito. Il primo intervento risale al 5 luglio scorso, quando Palazzo Chigi ha approvato un disegno di legge costituzionale finalizzato all’abolizione dei discussi enti territoriali. Parallelamente il governo ha varato un altro provvedimento per gestire la fase di transizione in vista della completa riforma. Un disegno di legge ordinario che, istituendo le città metropolitane, svuota di fatto i poteri delle province. Per ora il percorso procede con successo: ampiamente modificato durante l’esame parlamentare, il testo è stato approvato dalla Camera dei deputati pochi giorni fa.
Il riordino degli enti territoriali fa parte di un più ampio progetto di riforme costituzionali. È questo il vero obiettivo politico del governo Letta. Assieme all’abolizione delle province, sono tre le grandi scommesse dell’esecutivo. La riduzione del numero dei parlamentari; la fine del bicameralismo perfetto (con la trasformazione di una Camera in espressione delle autonomie locali); la grande riforma del titolo V della Costituzione. È un lavoro impegnativo, che dovrà essere avviato nei prossimi mesi e portato a termine in breve tempo. Nonostante le ambiziose premesse, il bilancio della prima fase di governo non è positivo. Ai saggi designati dal Quirinale lo scorso marzo è seguita l’istituzione di una commissione di esperti da parte di Palazzo Chigi. Nel frattempo l’esecutivo ha persino avviato una consultazione pubblica su internet, per sensibilizzare i cittadini sul tema delle riforme istituzionali. Eppure la strategia pensata da Enrico Letta è rimasto inattuata. Il disegno di legge costituzionale che ipotizzava di riscrivere la Carta aggirando le procedure previste dall’articolo 138 della Costituzione è fallito. In seguito all’uscita dalla maggioranza di Forza Italia, è stato accantonato il progetto di un comitato di quaranta parlamentari per scrivere le riforme. Con il nuovo anno, si riparte. Il calendario tracciato dal governo non ammette altri ritardi. Nelle intenzioni del governo i primi passaggi parlamentari dovranno avvenire entro le elezioni europee di primavera.
Riforme costituzionali e non solo. L’altro dossier urgente è quello della legge elettorale. Ecco la seconda nota negativa dell’azione di governo e Parlamento. Un rinvio dopo l’altro, la riforma del Porcellum – quantomeno della norma uscita indenne dalla recente sentenza della Consulta – è diventata improrogabile. Tutti la auspicano, ma per ora nessuno è riuscito a sbloccare l’impasse. E a nulla è servita la minaccia di alcuni esponenti dell’esecutivo, che nei mesi scorsi hanno persino ipotizzato di intervenire con un decreto legge. Per il momento a Palazzo Chigi si seguono le mosse del segretario Pd Matteo Renzi. Con ogni probabilità sarà lui a presentare un progetto di riforma entro i primi giorni di gennaio, nel tentativo di trovare una sintesi tra i principali partiti presenti in Parlamento.
Ma sono proprio i rapporti tra esecutivo e maggioranza la grande incognita delle riforme istituzionali. Dall’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, fino all’approvazione di una nuova legge elettorale, passando per le modifiche della Costituzione. Ogni capitolo dovrà essere attentamente concordato sull’asse Palazzo Chigi-Partito democratico. Nelle ultime settimane Matteo Renzi ha deciso di accelerare e tenere alta la tensione sul governo, un passaggio fondamentale sarà rappresentato dal prossimo contratto di coalizione. Il neo segretario Pd lo ha ribadito ancora oggi in una intervista a La Stampa, e di certo non basterà un rimpasto. «Il governo va avanti se fa. Alla gente che mi ha votato ora non posso dire che si va avanti anche se il governo non fa». Fare, dunque. E fare, prima di tutto, sul piano del lavoro e delle riforme costituzionali e della legge elettorale. Enrico Letta è pronto a raccogliere la sfida?