Jeremy Hammond incarna alla perfezione il concetto di hacktivism, ovvero quel tipo di attivismo che elegge la rete come campo d’azione per forme di protesta politica. Il 15 novembre è stato condannato da un giudice federale a 10 anni di reclusione per avere sottratto dati di carte di credito e altre informazioni, nel febbraio 2011, al sito di Stratfor, un agenzia di sicurezza privata che collabora con l’esercito USA. Questa vicenda, che ha coinvolto vari esponenti della galassia Anonymous, in particolare il gruppo conosciuto come AntiSec, può essere presa come esempio della momentanea crisi dei metodi di protesta del movimento e di altri simili come Occupy Wall Street.
Nato nel 1985, Jeremy Hammond fin da giovanissimo è stato un punto di riferimento della comunità hacker e dei movimenti di protesta di Chicago. Il prossimo 8 gennaio compirà 29 anni e dovrà passare i prossimi 10 in carcere a scontare una pena per reati informatici. Tuttavia, non può essere considerato un semplice criminale, poiché le sue “imprese” non hanno avuto origine dal desiderio di un tornaconto personale da ottenere attraverso mezzi illeciti, ma sono dovute a motivazioni di natura politica. Si può dire che i reati di cui si è reso colpevole hanno una loro morale che li eleva dalle comuni azioni spregevoli per cui solitamente si viene incriminati da un tribunale. Rappresentano, piuttosto, una chiara e diretta sfida a un sistema di potere da parte di un individuo con un atteggiamento a dir poco sfrontato nei confronti delle possibili conseguenze delle sue azioni.
La biografia di Jeremy Hammond fa di lui un vero e proprio eroe contemporaneo. Secondo la più classica agiografia da tecnoprodigio, durante l’infanzia Jeremy sviluppò un precoce interesse per i computer e la programmazione. Negli anni delle superiori, invece, diede le prime dimostrazioni di impegno civile, guidando alcune manifestazioni studentesche e fondando un giornale scolastico pacifista contro l’invasione dell’Iraq da parte dell’amministrazione Bush. Tra i 18 e i 21 anni, venne arrestato una decina di volte per disordini e danneggiamento durante alcune proteste. Hammond, come giovane hacker impegnato contro il sistema di potere, ha senza dubbio lo spessore del personaggio letterario. Autoproclamatosi Robin Hood dell’era dell’informazione, l’archetipo che rappresenta è quello di Davide contro Golia, solo che Jeremy, per il momento, non è certo dalla parte di chi ha vinto. Nella sua attività di hacker si è sempre riflessa una chiara visione politica con la tecnologia nel ruolo di strumento di lotta antisistema ben al di là dei limiti imposti dalla legge. In più occasioni Jeremy si è trovato ad esporre veri e propri proclami programmatici a supporto delle sue incursioni nel cyberspazio. Come riporta un ritratto del Chicago Magazine, nel 2007, dichiarava: “Tutti i conflitti provengono dalla diseguaglianza sociale e da coloro che la sfruttano a proprio vantaggio”. A proposito di macrofenomeni come la dipendenza da idrocarburi, la sovrappopolazione e i cambiamenti climatici, le sue idee erano già altrettanto chiare e radicali: “La nostra civiltà sta per affrontare un imminente cambiamento di massa. L’alternativa alla struttura gerarchica del potere si fonda sulla cooperazione e il mutuo soccorso. Come hacker possiamo imparare dai sistemi di potere, li possiamo manipolare e, se necessario, sabotare”.
L’hacktivism non assume, tuttavia, sempre forme così estreme. Si tratta più spesso di azioni di disobbedienza civile in ambiente digitale riguardo la censura di internet da parte dei governi o il comportamento discutibile di qualche multinazionale. Più in generale, l’hacktivism è una visione in cui gli hacker, ma anche gli utenti comuni quando sono consapevoli del medium che utilizzano, portano avanti la causa della libera circolazione delle informazioni, del libero accesso a internet e della salvaguardia della sua indipendenza. In questo senso la tecnologia digitale, quando necessario, può essere utilizzata anche come forma di disobbedienza civile. Eppure per Jeremy Hammond il confine tra disobbedienza civile e attività palesemente in violazione della legge è sempre stato molto sfumato. I guai, infatti, sono iniziati nel 2005, quando l’amministratore e cofondatore di Protestant Warrior, un gruppo progovernativo le cui attività erano mirate e contrastare i pacifisti antiguerra in Iraq, contatta l’FBI accusando Hammond di essere penetrato nel database del suo sito e di aver sottratto informazioni tra cui i numeri delle carte di credito dei sostenitori. Il 7 dicembre 2006 Hammond fu condannato a due anni di prigione e tre di libertà vigilata, anche se vennero riconosciuti i motivi politici del gesto e il fatto che dai conti non fu effettivamente sottratto denaro.
Tornato in libertà, Hammond, sempre più sfrontato e imprudente si unì ad Anonymous. L’azione più eclatante a cui partecipò, quella per cui è stato condannato, è nota come Statfor email leak. Si tratta del furto di informazioni sensibili, numeri di carte di credito e oltre 5 milioni di email interne, appartenenti a una controversa agenzia privata di spionaggio globale con sede in Texas. Il “colpo” venne eseguito dal gruppo AntiSec, che utilizzò le carte di credito per fare versamenti per un totale di 700.000$ a una manciata di organizzazioni noprofit. L’archivio delle email dell’agenzia è stato pubblicato da Wikileaks a partire dal 27 febbraio 2012 sotto la denominazione di Global Intelligence Files.
A marzo 2012, Jeremy Hammond venne arrestato insieme ad altri quattro hacker. E siccome ogni storia ha bisogno del suo antagonista, il nostro lo troviamo proprio nel gruppo di Anonymous responsabile del leak. Si tratta di Hector Xavier Monsegur, conosciuto nel network di Anonymous come Sabu e informatore per conto dell’FBI dal 7 giugno 2011. Un mese prima Sabu insieme ad altri si era in parte staccato da Anonymous creando il gruppo Lulz Security, diventato famoso per le ripetute azioni di hacking ai danni di Sony, il sito del Senato, Minecraft e Nintendo. Il gruppo poco dopò sarebbe diventato AntiSec, rientrando nei ranghi di Anonymous e ponendosi obiettivi strettamente politici. Al tempo l’FBI stava già collaborando con Sabu su base quotidiana e gli avrebbe fornito, addirittura, i server che sarebbero serviti da appoggio per l’attacco a Stratfor. Quinn Norton, cronista di Wired esperta del mondo hacker, che ha seguito da vicino le vicende di Anonymous, in una sua riflessione personale sull’accaduto, parla di come Hammond sembrasse quasi volersi pubblicamente sacrificare. Sembra dunque che l’operazione contro Statfor fosse una specie di esca per hacker intrepidi e idealisti e che Hammond abbia fatto di tutto per cadere nella trappola di Sabu e dell’FBI.
Questa vicenda lo accomuna a personaggi come Aaron Swartz e Chelsea Manning, ovvero coloro che hanno pagato a più caro prezzo il loro impegno in battaglie civili. Meno furbi di Assange o Snowden, rappresentano, insieme ad Hammond, i primi tre martiri di questa strana guerra a bassa intensità per il controllo delle informazioni. Se manterrà una buona condotta e considerato il tempo che ha già trascorso in prigione, Jeremy Hammond dovrebbe tornare in libertà nel 2021.