«La verità è che le riforme istituzionali non si è mai voluto farle», dice Vittorio Angiolini, professore costituzionalista e avvocato. Non sarebbe tanto rilevante l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza perché, se anche fosse rimasta a garantire la soglia teorica dei due terzi, c’erano già molti indizi per indovinare la mancanza di volontà da parte del legislatore.
Il percorso individuato a inizio legislatura prevedeva una modifica ad hoc dell’articolo 138 della Costituzione – che disciplina il meccanismo di revisione del testo costituzionale – per poter poi trattare le riforme vere e proprie, quelle elaborate dai saggi nominati da Napolitano, con un meccanismo particolare. Accanto alle Camere (che mantenevano intatte le proprie prerogative) si sarebbe affiancata una commissione bicamerale con ruolo consultivo, i tempi necessari per i quattro passaggi parlamentari sarebbero stati dimezzati e il referendum confermativo si sarebbe tenuto anche nel caso i voti favorevoli avessero superato in Parlamento la soglia dei due terzi.
Per modificare l’articolo 138 bisogna usare l’articolo 138, che prescrive appunto due passaggi alla Camera e due al Senato. Prima dell’uscita di Forza Italia dalla maggioranza ne erano già stati fatti tre, mancava l’ultimo. Ora che, probabilmente, la soglia dei due terzi è sfumata appare più dubbio che il governo voglia portare il Paese a un referendum confermativo su una questione tecnica come la modifica dell’articolo che contiene la disciplina per la revisione della Costituzione. Si rischierebbe un voto influenzato da ragioni di opportunità politica di corto respiro, da campagne all’insegna dell’intangibilità della Costituzione e il Paese ne uscirebbe ancor più diviso. Inoltre il segretario in pectore del Pd, Matteo Renzi, si è dichiarato ostile alla modifica del 138. L’intero percorso immaginato finora rischia insomma di crollare.
Ma secondo alcuni le fondamenta di questo percorso erano state segate fin dal principio. Ci sono argomenti che, quando emergono, sono un chiaro campanello d’allarme sul fatto che si punta ad arenare le riforme. «Discutere di semi-presidenzialismo vuol dire non voler fare niente. È un tema troppo divisivo», spiega Angiolini. «Allo stesso modo la riforma del bicameralismo, che sarebbe in teoria di assoluto buon senso, la si sta complicando fino a diventare una soluzione peggiore del problema. Lì bisognerebbe essere netti: la fiducia al governo la dà la sola Camera, il Senato fa solo le leggi che vincolano le Regioni e svolge un ruolo di camera di compensazione per i conflitti tra Stato ed enti locali. Invece i “saggi” stanno immaginando un sistema complicato di ripartizione delle competenze che porterà solo più confusione di prima».
Aggiungere materie sul tavolo delle trattative è da sempre un metodo per far schiantare il tavolo stesso. Le riforme costituzionali ritenute unanimemente o quasi “di buon senso” – come la riduzione dei parlamentari, il superamento del bicameralismo, l’abolizione delle province e la revisione del riparto di competenze tra Stato e Regioni, che ad ora genera una miriade di conflitti davanti alla Consulta – vengono affiancate da questioni divisive e complesse, col risultato che non procedono né le une né le altre.
«Esistono interventi di carattere “manutentivo” alla Costituzione, che sono i più sbandierati, e che sarebbe assolutamente necessario fare», prosegue Angiolini. «Ma per farli non era necessario mettere in piedi quel meccanismo complicato che è stato immaginato a inizio legislatura. Bastava seguire la procedura consueta. Invece si preferisce parlare di riforme invece che farle. Quando i saggi dicono che “bisogna dare più forza al governo in Parlamento” cosa stanno dicendo? Che si dà al governo il potere di sciogliere le Camere. Specularmente le Camere hanno già il potere di sfiduciare il governo. Questo è il sistema che vige in molte Regioni e quali sono stati i risultati? Stabilità che degenera in immobilismo, perché nessuno – né giunta né consiglio regionale – fa più nulla per evitare scontri e polemiche». Un tema di questo tipo, che appunto suscita già da subito resistenze, fa naturalmente da freno alle materie su cui, almeno pubblicamente, esiste maggiore condivisione.
Il governo Letta si trova ora davanti a diverse possibilità, anche alla luce della bocciatura del Porcellum decretata dalla Corte Costituzionale. Può proseguire sulla strada tracciata, anche se sono mutati i presupposti politici, affrontare il referendum confermativo sull’articolo 138 e, nel caso vincesse, varare le riforme previste dai saggi col meccanismo della bicamerale e i tempi dimezzati e al contempo fare una nuova legge elettorale. Altrimenti può abbandonare quanto fatto finora, mettere in campo un pacchetto più ristretto di riforme – quelle appunto la cui urgenza e bontà è maggiormente condivisa – e affrontarle con la solita procedura di revisione. Questa sembra la strada preferita da Matteo Renzi, che proprio alla realizzazione di alcune riforme (Senato, province, numero dei parlamentari e, anche se non è materia costituzionale, legge elettorale) vuole legare la sopravvivenza dell’esecutivo. Oppure la stagione delle riforme costituzionali finisce in soffitta e sul sistema di voto si avrà un intervento isolato, reso probabilmente necessario dal pronunciamento dei giudici . «Il mio sospetto è che alla fine non si faccia nulla, ma – se la legislatura promettesse di durare ancora abbastanza a lungo – Letta potrebbe congelare le riforme istituzionali fino a che non cambia il clima politico», azzarda una previsione Angiolini. «In caso di fallimento si rischia di fare nuovamente di fronte al Paese la figura di quelli che parlano ma non fanno. Con le conseguenze, non solo in termini di antipolitica ma anche di calo dell’affluenza alle urne, che sono immaginabili».