La pericolosità dell’uranio impoverito potrebbe essere definitivamente provata dai risultati di uno studio dell’International Agency Research Cancer. L’agenzia di Lione Iarc, specializzata nella ricerca scientifica sul cancro, ha comunicato all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) i risultati emersi durante le analisi su polveri sottili e nanoparticelle. «L’aria che respiriamo è inquinata con una miscela di sostanze cancerogene», ha spiegato Kurt Straif, dirigente dello Iarc. «Ora sappiamo che l’inquinamento dell’aria esterna non è solo un grave rischio per la salute in generale, ma anche una causa ambientale di decessi per cancro», ha sottolineato lo studioso.
Dati in grado di smentire definitivamente la strategia adottata dal ministero della Difesa italiano e dai suoi consulenti sulle conseguenze delle esercitazioni nei poligoni militari. Generali e periti si erano infatti sempre trincerati dietro la mancanza di evidenze scientifiche. Il legame tra l’esposizione all’uranio e lo sviluppo di determinate neoplasie non poteva essere stabilito con la necessaria certezza. Formula con cui per anni si sono motivati i provvedimenti che negavano un risarcimento o non riconoscevano la “causa di servizio” a chi si era visto diagnosticare linfomi o altri tumori rari dopo aver prestato servizio nell’esercito.
Oggi queste dichiarazioni potrebbero essere però stravolte nel processo che riguarda l’attività condotta dal personale in grigioverde all’interno del poligono del Salto di Quirra, a cavallo delle province sarde di Cagliari e dell’Ogliastra. Una delle infrastrutture militari più grandi del Vecchio Continente che, non a caso, per lunghi anni è stata utilizzata da altre Forze armate della Nato in accordo con lo Stato maggiore italiano. Sperimentazioni, test ed esperimenti che hanno finito per esporre a innumerevoli sostanze pericolose il personale militare e i residenti di oltre dieci comuni. Questa la teoria del pm Domenico Fiordalisi, sostituto procuratore di Lanusei che per primo si è messo in testa di capire quali fossero le attività dei militari.
L’inchiesta è nata dopo le numerose denunce dei parenti delle vittime e delle associazioni ambientaliste, tutti d’accordo nell’affermare quanto fossero lacunosi i protocolli della Difesa in materia di tutela della salute del personale. A puntare il dito sulla pericolosità di queste attività era stata anche la scienziata modenese Maria Antonietta Gatti, ricercatrice che aveva intuito come le origini di diversi mali fossero da ricercare nelle particelle che si sviluppano subito dopo le esplosioni. Venire a contatto con un proiettile camiciato con uranio impoverito non espone a particolari rischi, il pericolo si innesca qualora dovesse essere respirato l’aerosol sviluppato dall’esplosione. Un mix di metalli pesanti – piombo, benzene, torio – in grado di depositarsi sul terreno ed essere disperso nel circondario dal vento e dalle correnti.
Un tappeto di contaminanti molto simile a quello che si sviluppa nei teatri operativi bombardati con questo tipo di munizioni. Dopotutto, la pericolosità era stata già messo nero su bianco su alcuni documenti ufficiali redatti dai vertici del Patto atlantico. Alcuni eserciti decisero di formare i propri uomini e di tutelarne la salute, altri preferirono comportarsi come se nulla fosse. Sono numerose le testimonianze rese da chi ha operato nei Balcani; gli americani e i britannici giungevano nelle zone bombardate con proiettili all’uranio adottando particolari cautele.
Procedure che invece – non si sa quanto volutamente – non venivano quasi mai richieste dal comando italiano. Lacune che poi si sono ripercosse anche dentro i poligoni che costellano il territorio nazionale, fazzoletti di terra in cui veniva scatenata una guerra simulata del tutto simile a quella vera. Il pm Domenico Fiordalisi aveva chiesto il rinvio a giudizio dei sei ex comandanti del poligono succedutisi fra il 2004 e il 2010, i generali Fabio Molteni, Alessio Cecchetti, Roberto Quattrociocchi, Valter Mauloni, Carlo Landi e Paolo Ricci, e due comandanti del distaccamento dell’Aeronautica di Capo San Lorenzo, i colonnelli Gianfranco Fois e Francesco Fulvio Ragazzon. Tutti e otto sono accusati di omissione dolosa aggravata di cautele contro infortuni e disastri. A Molteni, Cecchetti e Quattrociocchi è stata contestata anche l’omissione di atti d’ufficio dovuti per ragioni di igiene e sanità. Ma la richiesta di rinvio a giudizio è stata subito ritenuta nulla.
Gli altri indagati sono tre membri di una commissione del ministero della Difesa, il generale Giuseppe Di Donato, il dirigente Vittorio Sabbatini e il maggiore Vincenzo Mauro, per omissione dolosa aggravata di cautele contro infortuni e disastri. Sull’intera vicenda potrebbe poi stagliarsi – sempre che non arrivi la prescrizione su alcune fattispecie – la disciplina del “segreto Nato”: questa è infatti la richiesta avanzata dall’Avvocatura dello Stato di Cagliari – difensore di alcuni generali – al giudice dell’udienza preliminare.
Un’opzione parzialmente diversa rispetto al segreto di Stato, in questo caso sarebbe infatti il Consiglio dei ministri a doversi pronunciare. Passaggio amministrativo-politico non previsto dalle normative in cui si regolamenta l’adesione italiana all’Alleanza atlantica. In attesa delle decisioni del gup di Lanusei, ha deciso di indagare anche la procura di Cagliari, questa volta su quanto accaduto all’interno del poligono di Teulada, paese del Sulcis a quaranta chilometri dal capoluogo sardo. Anche in questo caso si registrerebbe un’incidenza di tumori superiore alla media, indizi che potrebbero essere confortati dai risultati del recentissimo studio francese. Numeri che dovrebbero portare la Difesa ad avviare un’“operazione trasparenza”. Il cambio di passo si rende necessario anche per rinsaldare il legame con le popolazioni residenti intorno al demanio militare, cittadini sempre più convinti di aver subito un torto proprio da quello Stato incaricato di difenderli.