Unicredit humanum, Monte dei Paschi diabolicum. Si potrebbe parafrasare così, citando le parole di Gianni Agnelli sulla scalata appoggiata da Mediobanca di Mario Schimberni alla Bi-Invest e poi alla Fondiaria, l’esito dell’assemblea odierna dell’istituto senese. È andata come previsto: la Fondazione Mps, principale azionista con il 33,5% delle quote, è riuscita a rinviare (con l’82% dei voti favorevoli) a dopo il 12 maggio l’aumento di capitale da 3 miliardi di euro – bocciando invece con il 69% dei voti l’ipotesi di avvio a gennaio – per ripagare una parte dei 4 miliardi di Monti Bond ed evitare una nazionalizzazione che ormai è quasi storia.
Il presidente Alessandro Profumo, che potrebbe dimettersi al consiglio d’amministrazione del 7 gennaio prossimo, si è dunque schiantato contro il muro delle Fondazioni per la seconda volta in tre anni. Nel 2010 l’uscita dal principale gruppo bancario italiano grazie al blitz di Cariverona e Crt, oggi in virtù della senesità dell’istituto. Cambiano i protagonisti, non la sostanza: il “sistema” che riunisce politica locale, associazioni di categoria territoriali e rappresentanze delle parti sociali, del clero e delle università ha fatto muro contro l’invasione dello straniero e del mercato.
L’italianità di Unicredit, la senesità del Monte dei Paschi. Un valore, quest’ultimo, da preservare a ogni costo, vedi l’appello sul Sole 24 Ore di Confindustria Siena – di cui Antonella Mansi, presidente dell’ente di Palazzo Sansedoni, è vicepresidente nazionale – per invocare l’intervento della solita Cassa depositi e prestiti, controllata dal ministero dell’Economia peraltro criticato per l’eccessivo peso del fisco sulle imprese. La Cdp non è un interlocutore qualsiasi: il presidente Franco Bassanini, influente a Siena, ebbe a dire a proposito di Antonveneta: «È la migliore operazione che potessero fare».
E dire che è stata la stessa Fondazione a chiamare Profumo nel marzo 2012 per risanare la banca, con l’imprimatur dell’ex sindaco Franco Ceccuzzi. Peccato che al dalemiano Ceccuzzi lo scorso giugno succede Bruno Valentini, renziano, che stando a quanto riferito da Repubblica non lo ha mai amato. Che Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola abbiano usato un piglio deciso non è un mistero. L’ambizioso piano industriale al 2017, che per l’Europa costituisce una sorta di prova generale del nuovo meccanismo di salvataggio per le banche in difficoltà, prevede 8mila esuberi e la chiusura di 550 filiali.
È stato però l’impuntarsi, forti del parere del notaio Piergaetano Marchetti, sull’improrogabilità dell’aumento di capitale a gennaio – in primis per via dell’accordo con il consorzio di garanzia de roi composto da Ubs, Citi, Mediobanca e Goldman Sachs – a far saltare il banco. Per i maligni, un modo escogitato dai due manager per uscire dall’impasse a testa alta. Per la Fondazione, un’imposizione irricevibile: con 340 milioni di euro di debiti contratti per seguire gli aumenti di capitale degli anni precedenti e con le azioni della banca in pegno alle banche, Palazzo Sansedoni non avrebbe avuto alcuna possibilità di sottoscrivere l’operazione straordinaria.
Per evitare una diluizione che avrebbe mandato in rosso il patrimonio netto dell’ente, oltre che la mitica presa locale sull’istituto senese, lo sbarramento in assemblea era l’unica strada possibile: «Per noi la tutela dell’integrità del patrimonio non è un optional: non potete chiederci di fare crollare proprio noi l’edificio che ci è stato affidato dalla legge», ha detto Antonella Mansi nel corso del suo intervento. La strada che pare non disprezzata dal ministro Saccomanni, a cui spetta la vigilanza sulle Fondazioni, sembra quella di uno scambio carta contro carta tra l’ente che controlla Mps e Cariplo e Cariverona, azionisti forti rispettivamente di Intesa Sanpaolo e Unicredit. Una strada «difficile ma non impossibile» a detta di uno dei soggetti coinvolti. Sarebbe l’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche: le Fondazioni sono azioniste di minoranza (20%) proprio della Cassa depositi e prestiti.
Di certo, guardando alle informative richieste da Consob in preparazione all’assemblea, emerge che agli attuali corsi azionari il salvagente lanciato dall’esecutivo Monti a Rocca Salimbeni costerà 330 milioni in più da qui al prossimo luglio, quando il Tesoro potrebbe arrivare al 16% del capitale di Mps. E più il titolo scende, più salgono le quote pubbliche, salva la soglia di 12 centesimi, oltre la quale scatta l’escussione del pegno da parte degli istituti creditori. Un’eventualità che non fa comodo a nessuno.
Tornando a Profumo, comunque vada a finire l’ex McKinsey boy ha perso di nuovo quella battaglia culturale per l’internazionalizzazione che gli era costata il posto a Unicredit. Nessun arzillo vecchietto di mezzo, stavolta, ma il sempiterno totem del localismo e dell’italianità e una politica (in questo caso il Pd) che non perde il vizio di tenere le mani dentro le banche…