C’è gente a cui piace il pericolo. Amano mettere alla prova la loro abilità, rischiano in proprio, non temono di perdere tutto, agiscono in prima persona e ripartono sempre da zero.
È il ritratto di Steve McQueen? No, sono i business angel, o investor angels, una figura decisiva – ma poco nota – dell’innovazione imprenditoriale americana ed europea. Il loro intervento infatti è più significativo nei settori in cui conta il capitale dell’intelligenza e dell’immagine, il valore che al momento del successo viene depositato nei brevetti e nei marchi dell’azienda. Parliamo quindi di quel patrimonio composto di asset intangibili che le banche digeriscono male e finanziano peggio, ma che rappresentano il concime per la fioritura delle iniziative più promettenti nei settori della tecnologia e del design. È qui che entrano in scena gli angeli.
Nella storia delle imprese di successo il loro ruolo rimane quasi invisibile per l’epica dell’agiografia a posteriori, ma svolge le funzioni essenziali di motivazione e di inquadramento che sono sostenute dalla misteriosa voce del magnetofono delle Charlie’s Angels. Solo che ora il ruolo è rovesciato – gli angeli sono i mandanti, mentre Charlie è il fondatore dell’impresa che deve riuscire a risolvere il mistero di come sbancare un mercato sempre più in crisi. Le metafore collegate al mondo dello spettacolo sono autorizzate dal fatto che l’etichetta è stata coniata da William Wetzel nel 1978, per analogia con gli imprenditori che alla fine dell’Ottocento finanziavano le produzioni più ad alto rischio nei teatri di Broadway.
Come i vecchi sostenitori del musical, anche i moderni business angel sono personaggi che provengono dallo stesso ambiente cui appartengono le startup in cui investono i loro capitali; sono per lo più a loro volta imprenditori di prima generazione, che hanno conquistato il successo e hanno ceduto la loro azienda o la gestiscono insieme ad altri manager. Impegnano le fortune che hanno accumulato e il tempo rimasto libero in nuove iniziative con caratteristiche prossime a quelle sperimentate durante la loro avventura professionale.
Alcuni anni fa, in una recensione a Wenders, Enrico Ghezzi si chiedeva se lo sguardo del regista fosse l’occhio dell’angelo o l’angelo come occhio. In prima battuta il business angel è l’occhio che scruta l’impresa che vuole finanziare, tracciando una due diligence informale ma precisa. I costi di questa operazione di solito allontanano i venture capital di maggiori dimensioni dal sondaggio delle startup, a causa delle loro piccole dimensioni e del costo eccessivo dell’analisi rispetto ai profitti attesi. L’angelo invece può condurre l’esame con un contributo economico e in un arco di tempo ridotti, proprio in virtù della sua competenza e della sua esperienza di settore.
Superata la fase di esplorazione, l’occhio dell’angelo accompagna l’imprenditore che beneficia della sua fiducia attraverso i primi passi dello sviluppo societario, offrendo sia indicazioni manageriali, sia introducendolo nella sua rete di relazioni commerciali, che possono agevolare la firma dei primi contratti importanti. Oltre al sostegno economico quindi gli angel investor rappresentano una guida nella formazione della competenza di gestione e un catalizzatore dello sviluppo di nuovo business.
Oltreoceano gli angeli manifestano le virtù miracolose che ci si aspetta dal loro epiteto: uno studio della Harvard Business School prova che le startup finanziate da business angels manifestano una probabilità di sopravvivenza molto superiore alla media, e tendono a godere di nuovi finanziamenti almeno da parte di altri business angels. Negli Stati Uniti il loro numero ammonta a 258 mila unità nel 2013, e le dimensioni di investimento pro capite sono andate da 10 a 100 mila dollari. Sempre nel corso del 2013, la somma complessiva del loro contributo è salito a 20 miliardi di dollari, distribuiti su circa 60 mila aziende. Lo sforzo coperto da questa categoria di finanziatori è la vera linfa vitale dell’innovazione americana, se si considera che questo flusso di capitale equivale a tre volte quello versato dai Fondi di investimento «Early Stage», e a una volta e mezzo quello erogato dai fondi di «Late Stage».
Solo il 2,5% delle startup sostenute da business angels accede almeno alla prima fase di investimento da parte di Venture Capital. Il segmento più ampio si limita a chiudere o a fallire; altre riescono a sopravvivere, generando redditi pur di modeste dimensioni; altre ancora vengono acquisite non per il valore del prodotto o del servizio, ma per l’inglobamento dell’esperienza del personale assunto. Secondo un’indagine condotta dalla Worthworm il 46% degli angeli americani sarebbe insoddisfatto degli investimenti che ha rischiato nel corso del 2012. Le ragioni dello scontento sono connesse ai dati finanziari comunicati dalle imprese beneficiarie, che propongono proiezioni finanziarie troppo ottimistiche e valutazioni «premoney» non realistiche.
Gli angeli sono forme di vita piuttosto indecifrabili nella gerarchia teologica. Le motivazioni che li spingono a investire sono avvolte in questa forma di mistero: secondo il report di Worthworm tra i fattori rilevanti compaiono il contributo allo sviluppo dell’economia americana, il divertimento e l’amore per il rischio, l’allargamento della rete sociale a nuovi imprenditori. Ma naturalmente la prospettiva di guadagno e la diversificazione del portfolio di investimento rappresentano il focus della vocazione per ascendere nell’empireo della finanza. Per di più le aree di intervento sono quelle più ad alto rischio del panorama economico contemporaneo, dal software (16% degli investimenti) al farmaceutico (30%), al biotecnologico (15%).
E in Italia? Nel 1999 si costituisce il primo Business Angel Network, l’IBAN, che aderisce all’EBAN europeo e che oggi conta 142 soci. Nel 2007 nasce anche Italian Angels for Growth, che raccoglie un centinaio di angeli e fino al 2012 ha investito 17,4 milioni di euro in startup. La distanza rispetto al panorama americano salta all’occhio.
Senza uno stormo di business angels, l’innovazione dell’impresa italiana può davvero credere di tornare a volare?