Se nella vostra mente si è già formulata la considerazione: «Ecco la classica recensione provocatoria da bastian contrario, siccome tutti dicono che Unastoria è un capolavoro, l’hanno pure candidato al Premio Strega, ora assisteremo al classico esercizio critico di falsa originalità in cui si vuole smontare il libro che piace a tutti». Be’, tranquillizzatevi pure. Ho troppo rispetto del mio tempo per dedicarmi a simili sterili acrobazie.
Non ho detto che non apprezzo le sue opere o che non lo considero un autore importante. Sarebbe, invero, un arduo cimento negare il suo magistrale dono narrativo, o ignorare il talento pittorico traboccante dalle sue tavole. Ho detto che non ne sono un fan. E se si padroneggia con consapevolezza la parola, s’intende che significa tutt’altra cosa.
Non sono fan nel senso che finora nei suoi confronti non sono stato scosso e visitato da quella sorta di innamoramento estetico e di comunione intellettuale che può indurmi a definire fan di un qualsivoglia autore. Una condizione che presenta dei sintomi ben precisi: la spasmodica attesa della nuova opera, una sorta di acritica accettazione a priori della stessa, la fiducia incondizionata che sarà necessariamente una gemma memorabile. Se lo è, il dogma messianico è salvo, se non lo è scatta la manìa filologica a dare un senso recondito al fallimento del beniamino.
Quella particolare condizione che mi fa ogni tanto riascoltare e giustificare i dischi di metà anni Ottanta di Bob Dylan (gli unici brutti in una carriera per cui il Nobel è il minimo), o che mi ha fatto sborsare alcuni preziosi euro, nonostante decennali delusioni, per vedere To Rome with Love di Woody Allen (film talmente offensivo nella sua inconsistenza che sospetto un finanziamento occulto della Lega Nord).
Tornando a Gipi, avevo trovato sempre le sue storie forti, riuscite, affascinanti ma, in una qualche misura, furbe, o troppo consapevoli dell’effetto emotivo che potevano scatenare sul lettore. Ho apprezzato moltissimo quindi l’incontro al recente Lucca Comics and Games, in cui lo stesso Gipi definiva il celebrato La mia vita disegnata male come un libro “paraculo”, dichiarando che il nuovo libro, scritto di getto dopo un blocco di 5 anni, intendeva proprio fregarsene di compiacere il pubblico. Certo, chi volesse essere malizioso, potrebbe chiosare che questa sembra proprio la mossa “paracula” al quadrato: io vi dico che il libro, che avete già tutti comprato, letto ed amato, era “paraculo”, non come questo nuovo, che è sincero, per cui compratelo, leggetelo e amatelo ancora di più.
C’è un piccolo dettaglio, però, che va obbligatoriamente aggiunto: mentre parlava Gipi appariva sincero fino ad essere toccante. E, quindi, senza aspettative da ammiratore, ma con un certo distacco critico, ho letto Unastoria. Rinuncerò fin da subito alla sfida necessariamente persa di riassumere la trama del libro. Sarebbe un crimine, ma soprattutto sarebbe un crimine inutile. Unastoria fin dal titolo si pone nel solco della assoluta essenzialità poietica.
C’è un termine in inglese, abusatissimo (come tutti quelli efficaci), che definisce perfettamente il valore di questo libro: amazing. Ma non nel senso superficiale o stupido col quale viene spesso usato dai commentatori sportivi inglesi per descrivere un bel goal, o dalle starnazzanti turiste americane mentre degustano una porzione di pasta scotta pagata 15 euro. Letteralmente: ti lascia senza fiato.
Gipi, si sa, è bravissimo ad esprimere nel segno stati d’animo delicati e inquietanti, come la fragilità nervosa, il panico, la paranoia, la solitudine interiore. Ma l’afflato che nelle altre storie poteva risultare soffocante qui diviene un respiro liberatorio. Non credo sia esagerato definirlo la summa delle opere di Gipi, almeno di quelle pubblicate finora. Lo sguardo scabro di Gipi si inchioda sulle radici ontologiche dell’infelicità umana con l’autenticità di chi ha davvero toccato il fondo.
Col rigore di un ricercatore primitivo, l’autore scandaglia i temi connaturati alla nuda esistenza umana: l’attaccamento alla vita, l’altruismo, la viltà, la follia, la crudeltà, l’amore forte come la morte. Unastoria, prima che del talento del suo narratore, si nutre della forza di archetipi primordiali, di cui l’albero, perenne testimone della vicenda anche nei deliri onirici, è solo il più evidente. Tutti gli elementi che costituivano i toni dominanti delle singole storie precedenti, qui si dissolvono e si ricompongono alchemicamente in una forma nuova.
Ma, stavolta, non c’è controllo, non c’è metodo, non c’è la ricerca dell’effetto.
L‘impressione è quella di assistere ad una spettacolare corsa ubriaca, in cui ad ogni curva il pilota potrebbe perdere l’equilibrio e franare rovinosamente, mentre invece non solo giunge al termine miracolosamente illeso, ma ha pure stabilito il nuovo record del mondo. La narrazione è sospesa tra due tempi distinti, eppure dissolventi l’uno nell’altro, rivelando al lettore una visione d’insieme al contempo illuminante e straniante.
La tavolozza dei consueti registri narrativi è consumata in tutte le possibilità, grazie anche ad un impiego più che mai ardito del colore e del tratto. Lo stile scaturisce come un torrente di intuizioni dallo scarabocchio della follia messa su carta fino allo splendore muto di oscure tavole post-impressioniste. Col pudore di una stupenda intuizione poetica, il nitore di un collo femminile diviene il faro della redenzione, il porto del viaggio nella saison en enfer del proprio subconscio.
La sfida è pericolosissima, dacché i tòpoi che Gipi sfiora nel suo percorso sono primordiali e, in quanto tali, affrontati ed esplorati da sempre ad ogni livello, dai classici greci al mainstream, assorbiti e digeriti dal pubblico in tutte le forme, da Omero a Il Gladiatore, passando per Ungaretti e De Gregori. Eppure,non mi vergogno per nulla di usare un’espressione così apparentemente ingenua, la storia apre il cuore. Quando il talento sgorga dalla fonte profonda di un’ispirazione autentica, l’arte è in grado di dissetare l’arsura di bellezza che tutti ci tormenta.
Dunque, ora posso dirlo senza alcuna remora. Attendo spasmodicamente il prossimo libro di Gipi, e confido che sarà un capolavoro.