Intelligenza aumentataPerché i computer non parlano

Perché i computer non parlano

«La mia mente se ne va. Non c’è alcun dubbio. Lo sento… Lo sento… Lo sento… Ho paura». HAL 9000 parla al suo collega umano mentre la sua agonia è in corso. Dave sta disinnescando i circuiti del computer che governa l’astronave con la freddezza di un automa. Tutti i personaggi di 2001 Odissea nello spazio tendono a mostrare la stessa forma di impassibilità nell’esecuzione del loro compito, come se fossero ingranaggi di un meccanismo. Tutti tranne HAL, il computer che esprime la sua paura a Dave mentre la sua mente fatta di circuiti integrati e di righe di codice viene spenta. Il passaggio di umanità più straziante del film è affidato ad una macchina. 

HAL 9000 parla. Il dialogo con il suo assassino, la conversazione con cui spinge gli astronauti fuori dalla nave per liberarsi di loro, il dibattito sui sospetti che riguardano la reticenza nella definizione degli obiettivi della missione, sono tutti espressi in comunicazioni orali. HAL parla continuamente, medita sullo scopo del viaggio, osserva i suoi compagni di viaggio umani, legge il labiale delle loro conversazioni. L’interfaccia che lo mostra agli utenti è un occhio, non un monitor. HAL non scrive mai: è tutto quello che i nostri computer non fanno. Dopo il Mosè di Michelangelo i computer sono le entità più sorprendentemente mute dell’universo. 

2001 Odissea nello spazio esce nel 1968 e le opinioni di Kubrick sull’interazione più avanzata immaginabile tra uomini e computer sono clonate dalle tesi esposte da J. C. R. Licklider nel volume Man-Computer Symbiosis. Il mitico direttore del MIT dei primi anni Sessanta aveva immaginato il ruolo dell’intelligenza artificiale non come un clone o un sostituto degli uomini, ma come una struttura  di problem solving che avrebbe integrato il lavoro intellettuale degli uomini, senza tentare di emularlo. In questo quadro di simbiosi, l’interazione tra gli uomini e i computer avrebbe dovuto in un futuro prossimo venturo ricalcare la modalità di comunicazione più naturale per la componente biologica del rapporto, sostituendo le valvole e i pulsanti, ancora andavano di moda nei laboratori informatici del 1960, con il più confortevole formato  del colloquio orale. HAL 9000 è il più prestigioso dei figli ideali di Licklider.

I computer (almeno per ora) non hanno sostituito il vecchio dispositivo della mente umana come infrastruttura principale dell’intelligenza sul nostro pianeta. Il rapporto che intrattengono con noi è una declinazione della simbiosi che immaginava Licklider; la storia dell’informatica somiglia molto da vicino a quella immaginata nelle stanze della direzione del MIT – tranne per i dispositivi di interfaccia uomo-macchina. Sull’amabilità della conversazione con i computer qualcosa è andato storto. 

Se qualcuno ha interagito con i sistemi di riconoscimento vocale delle compagnie telefoniche può essersi fatto un’idea della ragione per cui le cose sono andate in questo modo. Se il menù di navigazione del servizio ha anche soltanto nove argomenti, sfido chiunque a ricordarsi quale fosse la seconda o la terza opzione quando la voce è arrivata all’ottavo o al nono item dell’elenco. La gestione di un indice che una pagina web controlla a colpo d’occhio, richiede l’assunzione di dosi adeguate di ansiolitici anche solo per lo scopo di scoprire quale sia il credito residuo. Le classiche interfacce IVR sono un ottimo deterrente contro queste forme di curiosità.

I computer nella fase del loro successo di massa e nella loro cooperazione per la nascita di Internet non sono stati i nostri partner di chiacchiera – ma sono stati l’origine di una nuova epoca nella storia dei dispositivi di lettura e di scrittura. Le svolte in questo segmento particolare delle vicende umane hanno sempre portato con sé conseguenze piuttosto dirompenti, per cui invocare la loro apparizione richiede prudenza e circospezione. Elizabeth Eisenstein ha messo in luce la connessione che si deve stabilire tra il torchio di stampa di Gutenberg da un lato, e dall’altro lato la Riforma di Lutero, la Guerra dei Trent’Anni, la Pace di Westfalia e il mondo contemporaneo. I caratteri mobili hanno chiuso i conti con il Medioevo e inaugurato la civiltà moderna molto più di quanto vi abbia contribuito la scoperta dell’America. Allo stesso modo, il passaggio dal volumen al codex (cioè dal rotolo classico al libro come lo intendiamo noi) è uno dei punti di innesco del pensiero medievale a discapito della produzione culturale dell’Antichità.

Il motivo per cui riassumiamo oggi questa storia è che l’ultimo tratto di percorso comincia proprio il 9 dicembre di 45 anni fa, quando Douglas Engelbart presenta allo Stanford Research Institute la sua invenzione per accrescere l’intelletto umano: il mouse e il monitor a finestre. Da quel giorno i computer sono rimasti definitivamente muti. La loro superficie è stata occupata da due spazi visivi, perfettamente insonorizzati, che si sovrappongono in modo parziale. Quello inferiore rivela i contenuti dei database della macchina e i risultati della sua unità di calcolo, che combina, integra, riformula dati e processi. Quello superiore è una proiezione delle intenzioni dell’utente, che viene proiettato tramite gli spostamenti del puntatore sul monitor, e che in alcuni punti notevoli può interagire con il piano sottostante: le aree di link, i pulsanti, i movimenti condizionati di drag&drop.

Engelbart parla per 90 minuti, illustrando le caratteristiche tecniche della sua invenzione, e offrendo una prova diretta del suo funzionamento. In un’ora e mezzo davanti al pubblico di San Francisco passano in rassegna gran parte degli elementi che compongono l’ecosistema del computer come lo conosciamo oggi: finestre, hyperlink, mouse, collaborazione in rete, editing dei testi, videoconferenze. È possibile assistere all’evento grazie ai filmati dell’epoca, che sono ancora rintracciabili sul web e permettono di seguire tutti i passaggi della conferenza.

L’obiettivo di accrescere l’intelligenza umana appartiene al clima culturale degli studi sull’intelligenza artificiale e sulla cibernetica degli anni Cinquanta e Sessanta. Il valore di Engelbart è di averlo fatto, non solo di averlo immaginato. O almeno, ha costruito le premesse necessarie per arrivare al risultato. La novità descritta il 9 dicembre 1968 allo SRI era così dirompente che per 15 anni ha riposato tranquillamente nei laboratori di Palo Alto senza che accadesse nulla di rilevante. Il sonno dogmatico sarebbe durato forse ancora a lungo – o forse i tempi erano maturi – se un giorno la Xerox non avesse invitato Steve Jobs a fare un giro turistico negli uffici del programma PARC, in cui Engelbart proseguiva i suoi studi incomprensibili. Un anno dopo quella visita la Apple avrebbe presentato il primo Mac sul mercato, inaugurando l’epoca e l’epos del personal computer.

Non sappiamo se il potere cognitivo sia davvero aumentato, oppure no; se si pensa a 4chan o a BuzzFeed come esito di quella rivoluzione, probabilmente si devono trarre conclusioni pessimiste. Ma quello che è certo è che si è compiuta una trasformazione radicale. Nicholas Carr è convinto che la configurazione stessa della nostra massa cerebrale sia stata modificata in modo irreversibile dall’evento consumato quella sera di 45 anni fa. Un personaggio come Ray Kurzweil invece lo auspica, e non vede l’ora di introdurre un fiume di nuove modifiche, fino a integrare lo strato di intelligenza al silicio nelle vecchie condutture biologiche del sistema nervoso. La storia di Kurzweil scorre parallela a quella di Engelbart, e procede in direzione opposta dalla decodifica ottica della scrittura verso il riconoscimento vocale. Le sue invenzioni sono la base di Siri e di Google Voice, con le loro promesse di un’interazione diversa nel prossimo futuro con i computer. L’ambizione di Kurzweil non si limita all’intelligenza umana, perché si spinge fino alle soglie dell’immortalità. Ma questa ormai è già un’altra storia.

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