C’è molto di più del controllo di una squadra di calcio, la Roma, nello scontro – momentaneamente rientrato – tra Unicredit e James Pallotta. C’è, in proporzione, lo spostamento dell’asse mondiale dall’America alla Cina, con l’Europa in mezzo a far da terra di conquista.
Unicredit, nel 2010, salva dal possibile fallimento la Associazione Sportiva Roma, gestita dalla famiglia Sensi, di cui è creditrice per circa 400 milioni. Trasforma il credito in azioni e inizia a cercare acquirenti (“il calcio non è certo il core business di una banca”, del resto). Li individua nella cordata di imprenditori italo-americani guidata da James Pallotta, attuale presidente del club giallorosso. L’assetto azionario vede quindi Pallotta&Co al 69% e Unicredit col restante 31% della holding Neep Roma, che ha il 78% del club: il resto è sul mercato, perché la Roma è quotata in borsa dal 2001, quando andava tanto di moda (vedi Lazio e Juve) e poi non è andato più.
È proprio l’andamento a Piazza Affari a far drizzare le antenne. È lunedì 7 ottobre: i giallorossi hanno appena travolto l’Inter a San Siro inanellando la settima vittoria di fila e volando in testa alla classifica a punteggio pieno. Quel giorno il titolo inizia a correre come la squadra e infila sette sedute di fila in forte rialzo, passano di mano 4,5 milioni di pezzi, quasi cinque volte i volumi normali. In pochi giorni, da 58 centesimi a 1,67 euro. Il 15 ottobre vengono scambiati quasi 8 milioni di azioni, il giorno dopo il titolo sfiora i 2 euro, il livello più alto da oltre dieci anni. “A comprare a piene mani sono soprattutto i piccoli trader, non i grandi fondi – spiega a Linkiesta Gianluca Defendi, analista finanziario di MF – e questo lo dimostrano i controvalori dei contratti, tutti abbastanza contenuti, segno che sono pesci piccoli e medi a operare massicciamente, spinti dai risultati sorprendenti che spalancano le porte a una redditizia qualificazione alla Champions League. Provocatoriamente, si potrebbe dire che molti tifosi invece di scommettere alla Snai provano l’azzardo sul listino azionario”.
Dopo un fisiologico calo ecco la seconda fiammata, datata 25 novembre: più 30% in poche sedute, ritornando a quasi 1,5 euro, ma con volumi in diminuzione, circa 3 milioni di pezzi. Questa seconda impennata è legata alle voci sull’ingresso di nuovi soci nel capitale della Roma: Unicredit tratta con investitori cinesi e, fin qui, nulla di clamoroso, perché la banca ha da sempre dichiarato di voler “valorizzare la sua partecipazione”, ossia – traducendo dal gergo finanziario – venderla alle condizioni migliori per rientrare dell’investimento fatto a suo tempo. Si parla dell’imprenditore Chen Feng e del suo megagruppo HNA, attivo in tanti settori (trasporto aereo, turismo, immobiliare, finanziario), il sesto per grandezza nella grande Cina con 44 miliardi di dollari di giro d’affari. Voci, ovvio. Ma su queste indiscrezioni è venuto fuori un fragoroso scontro che manco Romolo e Remo.
L’ira degli americani ha sorpreso tutti. In un comunicato di fuoco, Pallotta si è detto “costernato per la sciocca e imbarazzante diffusione di false informazioni da parte di Unicredit”. Rizelato, pare, non tanto dalla fuga di notizie quanto dall’essere rimasto all’oscuro di tutto. Ma come, i due principali azionisti hanno smesso di parlarsi? Eppure, era stata proprio Unicredit a scegliere Pallotta. La banca, in punto di diritto (leggi patti parasociali), non avrebbe alcun obbligo di comunicare le sue trattative al socio, salvo poi, in caso di offerta ufficiale, girarla al primo azionista perché possa esercitare il suo diritto di prelazione alla stessa cifra (ma siamo ben lontani da questo stadio). Però. Toni inusitati, per le paludate comunicazioni ufficiali, che hanno fatto scattare la Consob e i chiarimenti del caso di Unicredit. Tempo un paio di giorni, ed ecco il dietrofront con dribbling alla Totti: la Roma, sia pur rimarcando la necessità di massimo riserbo, “accoglie con favore l’opportunità di lavorare con partner qualificati di ogni parte del mondo”, insomma abbiamo scherzato, sfuriata rientrata e welcome chinese friends.
Ma cosa c’è alla base dell’ira funesta di Pallotta (poi subito riportato a più miti consigli)? Un semplice misunderstanding, fanno filtrare dalla Roma. Un’affermazione di autorità (“qua comando io”) sostengono alcuni osservatori esterni, più maligni. Oppure, uno scenario clamoroso (e siamo alla parte meno seriosa). L’era degli americani, iniziata appena due anni fa, potrebbe essere già al capolinea. Questa sarebbe, secondo fonti finanziarie, la vera molla che ha fatto scattare il presidente giallorosso. Proprio adesso che sul campo la squadra intravede traguardi importanti dopo alcune stagioni molto deludenti (la qualificazione Champions vale sui 30 milioni, da confrontarsi coi 40 circa che verserebbe Feng per il 25% della holding). “Altro che convivenza pacifica. Mettersi in casa un socio così ingombrante, gente che difficilmente si accontenta di quote di minoranza, potrebbe essere l’anticamera di una estromissione dal club: i cinesi entrerebbero magari in punta di piedi ma pronti a scalare la società per prenderne il controllo, scalzando la cordata americana proprio quando i profitti sono all’orizzonte: ne avrebbero la forza e l’interesse”, questo il pensiero di molti osservatori delle cose finanziarie italiane.
Per i cinesi, acquisire il 25% e con esso un seggio in cda – come da statuto – potrebbe essere non tanto il passo che chiude la partita, quanto il primo di un nuovo match. Rastrellare azioni sul mercato, aumentare il peso in assemblea e contare sempre di più nelle decisioni strategiche, potrebbe essere quello successivo. E c’è già chi azzarda ipotesi di un aumento di capitale dedicato o altre operazioni straordinarie che potrebbero cambiare il volto della società. La squadra della capitale come metafora del cambio di epoca? E se il Sordi “americano a Roma” del prossimo futuro impugnasse, anziché la forchetta, un paio di bacchette di legno? Staremo a vedere. Di sicuro qualcuno, in Piazza Affari, ci ha guadagnato.
Twitter: @VittorioEboli