Ormai è ufficiale: Olli Rehn, vicepresidente della Commissione europea e soprattutto responsabile di uno dei dicasteri più delicati a Bruxelles, quello per gli Affari economici e monetari, si candida a succedere al presidente della Commissione José Manuel Barroso. Per ora è poco più di un’autocandidatura nel quadro dei liberali europei (Rehn aderisce al finlandese Partito di Centro, che fa parte degli euroliberali – in sigla Alde – per cui è stato anche eurodeputato), annunciata in pompa maglio dallo stesso Rehn a Londra. E questo nel quadro di un incontro proprio dell’Alde. «Sono molto motivato – ha dichiarato – a lavorare per riformare e modernizzare l’Europa. Per questo sono pronto a candidarmi».
La speranza di Rehn è di essere capolista degli euroliberali alle elezioni europee di maggio. Un posto divenuto molto importante grazie al nuovo trattato di Lisbona, che impone di “tener conto” dei risultati delle Europee, che le varie famiglie politiche presenti al Parlamento Europeo hanno prontamente interpretato come un’equazione tra capolista del partito vincente e nomina alla guida della Commissione Europea.
In realtà non è proprio così, i leader avranno ampio margine di manovra quando, nell’estate del 2014, si giocherà la partita delle nomine europee. Per la cronaca, Rehn non ha molte chance di riuscire nell’intento, visto che gli euroliberali quasi certamente non otterranno il primo posto nelle elezioni europee (per quello combatto Popolari e Socialisti), oltretutto a fargli da concorrente interno c’è l’ex premier belga e oggi presidente del gruppo Alde al Parlamento Europeo Guy Verhofstadt. Il punto centrale, però, riguarda proprio il portafoglio di cui si occupa, in virtù della nuova governance economica Ue.
Perché Rehn non è più solo responsabile di vigilare occhiutamente sull’andamento dei deficit degli stati membri. Adesso deve occuparsi anche di cose come la verifica degli squilibri macroeconomici (da ultimo se l’è presa anche con l’eccedente commerciale tedesco), i debiti pubblici, le raccomandazioni ai singoli stati membri sulle riforme da fare e i conti pubblici da aggiustare nell’ambito del Semestre europeo, o, addirittura, le leggi finanziarie degli stati dell’euro, che dal 2013 devono essere inviate ancora in forma di bozza a Bruxelles per verificare se rispettano le norme europee (in base al “Two Pack”).
La prima domanda che molti si fanno a Bruxelles: quanto sarà credibile un commissario ormai impegnato in campagna elettorale? Non si corre il rischio che sia particolarmente compiacente soprattutto con i governi che più potrebbero appoggiarlo, e più duro con altri considerati “ostili”? La Commissione respinge al mittente questi dubbi. “Non vi è alcuna ragione – ha dichiarato Oliver Bailly, uno dei portavoce di Bruxelles –di credere che il vicepresidente Rehn, qualsiasi sia la decisione presa per la propria carriera politica, non rispetterà il suo impegno a essere pienamente indipendente dagli stati membri e di continuare a essere indipendente nell’interesse generale dell’Unione”.
Sarà, ma basta ascoltare le dichiarazioni dell’eurodeputato del Pd Gianni Pittella per capire come le cose si stiano mettendo già ora, soprattutto dopo le rinnovate, dure critiche di Rehn all’Italia. «Rehn è diventato un avversario politico da sconfiggere e non più un Commissario al servizio dell’Europa. Rehn ha annunciato la sua candidatura come leader del gruppo liberale e liberista per le prossime elezioni e vuole utilizzare il nostro Paese come terreno di battaglia elettorale».
C’è, poi, anche una questione operativa. In generale, ai commissari, proprio in nome dell’indipendenza, nel codice di condotta è chiesto di “astenersi da pubbliche dichiarazioni a nomi di partiti politici o sindacati”. Salvo, appunto, in caso di intenzione di candidarsi. Qui il codice di condotta dei commissari europei prevede che il membro del collegio che voglia candidarsi informi il presidente della Commissione. E, soprattutto i commissari, si legge nel codice, “che intendano candidarsi alle elezioni devono ritirarsi dal lavoro della Commissione per l’intero periodo dell’attivo coinvolgimento e almeno per tutta la durata della campagna”, questo non necessariamente con dimissione immediate, ma con “congedo non pagato” concesso dal presidente. Concretamente, si parla di almeno un mese prima del voto, dunque da aprile in poi.
Per combinazione, è proprio il momento cruciale del Semestre europeo, quando affluiscono a Bruxelles i piani di riforma degli Stati membri e la Commissione comincia ad analizzarli, in vista della “pagella” da pubblicare, in forma di raccomandazioni paese, a maggio. La Commissione dovrà affidare il delicatissimo dossier a un altro commissario, ma chiaramente risulterà nettamente indebolita proprio nel bel mezzo di un esercizio che richiede, all’occorrenza, di fare anche la voce grossa con gli stati inadempienti.
Certo, potrebbe accadere come fece nel 2004 l’allora commissaria greca Anna Diamantopoulou, che si candidò alle elezioni nazionali e cedette il proprio portafoglio a un collega già sei mesi prima del voto. Starà a Barroso suggerire la soluzione più opportuna, certo è però che, nel caso di un portafoglio come quello di Rehn, anche una soluzione così anticipata non cambierebbe molto. Oltretutto non è facile: Rehn sta preparando le previsioni economiche d’inverno che saranno pubblicate a febbraio e che potrebbero contenere modifiche alle prime valutazioni delle bozze delle finanziarie degli stati euro, Italia inclusa. Difficile cambiare in corsa. Per gli stati membri potrebbe essere una buona notizia: un “giudice” distratto o debole potrebbe far comodo a tanti. Magari anche a Roma.