Sia pure da punti di vista diversi, è ormai chiaro che esiste un serio problema di impatto delle tecnologie dell’automazione sulla occupazione e sulla esclusione sociale. Ne avevano parlato David Talbot sulla edizione americana della nostra rivista, Romano Prodi su quella italiana e ora Robert Thielike su quella tedesca.
C’è chi, come Talbot e Prodi, prende atto del fatto che l’automazione, sia quella dei robot, sia quella del software, sostituisce intere categorie di lavoratori e lo fa con una velocità tale da rendere impossibile la creazione di lavori nuovi in numero sufficiente a ridare una occupazione, di livello analogo, a quanti l’hanno persa.
Ricorda Talbot che «in passato ci siamo già adattati a questo tipo di cambiamenti. Ma mentre i progressi nel campo dell’agricoltura si sono distribuiti nell’arco di un secolo e l’energia elettrica e l’industrializzazione si sono diffuse nel corso di decenni, la portata di alcune tecnologie informatiche raddoppia ogni due anni o quasi. C’è voluto poco tempo prima che la tecnologia informatica rimpiazzasse del tutto i flussi di lavoro gestiti su carta negli uffici, nelle sale riunioni e nei negozi».
Come si può leggere nell’articolo accanto,Thielicke, invece, parla di robot, quasi fossero una “sineddoche” per l’intera famiglia delle tecnologie della automazione. Pur riconoscendo il rischio di una continua sostituzione dell’uomo in lavori sempre più evoluti, fino a quelli che coinvolgono il livello della coscienza, tende a rassicurare chi teme che i robot, come in tanti film di fantascienza, possano arrivare a “dominare” gli “umani”. Lo fa, non negando che ciò possa essere tecnologicamente possibile, ma riflettendo sul fatto che a nessuno converrebbe portare i robot a un simile livello di sofisticazione. Esiste quindi un rischio, ma dovrebbe essere possibile evitarlo.
Questo dibattito, sostanzialmente di natura economica e tecnologica, balza a un livello superiore, nelle sfere della etica e della politica, con i due recenti interventi in materia di Papa Francesco e del Presidente Obama. Entrambi denunciano i fenomeni di esclusione sociale che la nuova economia basata su queste tecnologie produce.
Nessuno può negare che «circa il 60 per cento della crescita salariale negli Stati Uniti, negli ultimi anni, sia andata all’1 per cento degli americani, in prevalenza dirigenti le cui aziende stanno diventando più ricche grazie all’impiego di tecnologia IT per diventare più efficienti».
Allora si comprende Papa Francesco che nella Comunicazione apostolica Evangelii Gaudium scrive: «Oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e della mancanza di equità. Questa economia uccide. […] Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita».
Gli fa eco Obama pochi giorni dopo, nel discorso sulle diseguaglianze economiche al Center for American Progress, quando dice: «La tecnologia ha reso più facile per le aziende fare di più con meno. Eliminando certi lavori e certe professioni. Un mondo più competitivo porta le società a trasferire altrove i posti di lavoro e, mano a mano che i lavori manifatturieri se ne vanno oltremare, i lavoratori che prima li facevano, perdono il loro potere contrattuale, sono pagati meno e ricevono meno benefici. Il risultato è una economia che ha prodotto gravi disuguaglianze e famiglie sempre meno sicure».
Tutti questi allarmi, proprio perché da fonti autorevolissime e allo stesso tempo tanto diverse, fanno pensare a una condanna delle tecnologie che stanno alla base di questi drammi. Ma non è proprio così. Non è la tecnologia a essere colpevole, Lo è l’uso che l’uomo ne fa essendo sempre più schiavo del “denaro” in tutte le sue decisioni.
Per altro, su un altro livello, quello che non riguarda il divario tra gli individui, ma quello tra i paesi, le tecnologie più avanzate cominciano a venire percepite in un modo completamente diverso. Lo sviluppo dei paesi più poveri è al centro dell’attenzione di grandi istituzioni mondiali quali le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Banca Mondiale, le Banche regionali per lo sviluppo. Le parole chiave, quando si leggono le loro linee guida sono: interventi sulle emergenze umanitarie, sostegno a processi democratici di governo, attrazione d’investimenti privati e d’iniziative imprenditoriali.
Le parole “innovazione” e “tecnologia” sono praticamente assenti. Eppure sono le sole che indicano la via da seguire per colmare le distanze che separano i paesi più poveri dal resto del mondo.
Pensiamo a come una grande innovazione tecnologica pura, quella della telefonia cellulare, abbia dato in pochi anni uno stimolo senza precedenti allo sviluppo dell’Africa. I cellulari non sono solo strumento di conversazione, ma anche d’informazione, di aiuto a distanza, di transazioni finanziarie.
Oppure riflettiamo sul potenziale delle varie tecnologie di conversione della energia solare in elettricità, per offrire in modo diffuso e in tempi rapidi energia elettrica alle centinaia di milioni di persone che non sono vicine ad alcuna rete di distribuzione, né forse lo saranno mai.
Oppure alla possibilità di purificare acque inquinate con semplicissimi apparati alimentati da un pannello solare, in grado di fornire acqua potabile a costi bassissimi.
Oppure, infine, ai grandi miglioramenti di assistenza medica, scuole, agricoltura, consentiti da un uso diffuso di tecnologie della informazione e della comunicazione.
Nessuno vede in queste tecnologie dei rischi, ma solo grandi benefici.
La conclusione che emerge da questi scenari non può essere che di due tipi.
Il primo, che è giusto preoccuparsi dell’impatto che lo sfasamento tra distruzione di vecchi posti di lavoro e costruzione di nuovi crea problemi sociali molto gravi. Problemi che vanno affrontati non combattendo la tecnologia, ma con una politica che rimetta l’uomo e non il denaro al centro delle attenzioni di chi la usa.
Il secondo, che prendendo spunto dalla capacità delle nuove tecnologie di ridurre il divario tra chi ha e chi non ha a livello dei paesi, si possa raggiungere un risultato analogo a livello dei singoli, ampliando quanto possibile, con intensi programmi formativi, l’ accesso alle conoscenze.