Su Alitalia: «Discontinuità e rinnovamento». Su Telecom: «Resterà italiana». Sul Monte dei Paschi: «Noi siamo per l’autonomia delle banche dalla politica». Le parole del premier Enrico Letta sui tre dossier finanziari più caldi dell’anno appena trascorso si scontrano con l’amara realtà. Tre situazioni completamente diverse ma la stessa “voglia di stabilità”. Per una ragione o per l’altra, la foresta pietrificata italiana rimane tale, mentre la tanto deprecata politica sta tentando di innovarsi attraverso nomi (e idee) nuove. Non che manchino le ragioni politiche per mantenere lo status quo. In fondo, si tratta in tutti i casi di prede, anche se ormai non troppo succulente.
ALITALIA. Il consiglio d’amministrazione dell’ex compagnia di bandiera, che lunedì 13 gennaio nominerà i nuovi vertici, molto probabilmente sceglierà di mantenere lo status quo: Roberto Colaninno presidente e l’ex ducatista Gabriele Del Torchio – arrivato lo scorso maggio – come amministratore delegato. Quest’ultimo, come del resto Colaninno, è apprezzato dagli istituti di credito Intesa Sanpaolo e Unicredit, che hanno finanziato il vettore, ne hanno garantito l’aumento di capitale da 300 milioni appena concluso, e nel caso di Ca’ de Sass si sono ritrovati a detenere il 20% del capitale, diventandone il primo azionista. Il secondo azionista è Poste Italiane, il terzo Unicredit.
Per ora gli emiratini di Etihad hanno annunciato ufficialmente di «stare discutendo» con Alitalia, ma le trattative sono lungi dalla formalizzazione di una vera e propria offerta. Proprio da ciò sarebbe stata dettata la scelta di non stravolgere il top management in una fase così delicata, oltre alla realizzazione del piano industriale che dovrebbe portare a risparmi per 295 milioni di cui 128 legati al costo del lavoro, 1.900 esuberi e tagli agli stipendi superiori a 40mila euro l’anno. Numeri da cui dipende la sostenibilità del debito del vettore e dunque la sua appetibilità agli occhi della compagnia di Abu Dhabi, che comunque dovrà confrontarsi con Air France. In ogni caso il “salvataggio” del 2008 è costato alla cordata solo 300 milioni di euro, mentre ai contribuenti italiani 3 miliardi di euro tra bad company e cassa integrazione. E che succede? Colaninno succede a Colaninno, scelta peraltro benedetta dal governo Letta. In altre parole, l’industria italiana non è stata in grado di trovare un uomo nuovo di garanzia per la presidenza del vettore, ridando la cloche in mano al capo della cordata del 2008 che ha ulteriormente affossato la compagnia.
MONTE DEI PASCHI. Martedì 14 sarà la volta del Monte dei Paschi, nella prima riunione del consiglio d’amministrazione dopo la bocciatura, nell’assemblea del 28 dicembre scorso, dell’avvio a gennaio della ricapitalizzazione monstre da 3 miliardi per ripagare in fretta i Monti bond. A differenza di Alitalia, il presidente Alessandro Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola sono stati formalmente sfiduciati dal loro principale azionista, la Fondazione Mps. Eppure, se i rumors di questi giorni saranno confermati come sembra, non ci saranno scossoni particolari nella governance di Rocca Salimbeni.
La moral suasion di Bankitalia e del ministero del Tesoro, insomma, deve aver funzionato. Nonostante, nel caso di via XX Settembre, sia evidente il paradosso dell’aver negoziato con Bruxelles un aumento di capitale che un proprio vigilato – la Fondazione Mps – non avrebbe per definizione potuto sottoscrivere senza polverizzarne il patrimonio, con la logica conseguenza del commissariamento da parte del medesimo ministero dell’Economia. “Di stabilità” anche la soluzione dello scambio di quote azionarie tra Palazzo Sansedoni e una cordata di fondazioni capitanate dalla Cariplo di Giuseppe Guzzetti, azionista forte di Intesa Sanpaolo e della Cassa depositi e prestiti, a sua volta controllata dal ministero dell’Economia. Un inciucio benedetto dal ministro Saccomanni – ex direttore generale di Bankitalia che ha detto ai magistrati senesi di non essere stato messo al corrente dell’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps senza due diligence – mentre il titolo da un anno a questa parte abbia ceduto il 32% a fronte del +14% segnato dallo Stoxx Europe 600, l’indice comunitario dei maggiori istituti di credito.
TELECOM ITALIA. Il 16 gennaio andrà in scena il consiglio d’amministrazione dell’ex monopolista. Il presidente Aldo Minucci e l’amministratore delegato Marco Patuano andranno a naturale scadenza il prossimo aprile, ma sono delle “anatre zoppe” come i presidenti americani al secondo mandato. Se al prossimo cda passerà – come è probabile visto il sostegno di Patuano in chiave anti-Telefonica – la valutazione di qualsiasi dossier brasiliano come “parte correlata” spetterà agli amministratori indipendenti dare per primi un parere vincolante di cui il board non potrà non tenere conto. Un modo per complicare l’inevitabile spartizione di Tim Brazil tra gli incumbent del Paese (Vivo, Oi! e Claro).
Il Cade, il regolatore del settore, ha imposto infatti a Telefonica di scegliere se rimanere azionista in Telco, la holding che controlla Telecom Italia, o aprire il capitale della partecipata brasiliana Vivo, e la scissione delle attività di Tim Brazil è una soluzione che togliere le castagne dal fuoco agli spagnoli. La vendita in blocco della gamba brasiliana di Telecom, potrebbe contribuire a rendere sostenibile il debito a condizione di spuntare un prezzo che gli analisti stimano non debba essere inferiore ai 10 miliardi di euro. Al netto della partita sudamericana, va ricordato che Telco non è riuscita a coagulare un consenso sufficiente a nominare Stefania Bariatti e Angelo Tantazzi per sostituire Franco Bernabè ed Elio Catania.
Ciò nonostante, alla lista di maggioranza spetta la nomina dei quattro quinti degli amministratori. Una situazione che Marco Fossati, principale azionista privato al 5% della compagnia, ha dichiarato di voler modificare nella prossima assemblea. Peccato che il pallino rimanga nelle mani del primo azionista Telefonica, e la bocciatura del Senato alla riforma dell’Opa – che abbassava dal 30 al 15% la soglia minima in cui scatta l’obbligo di offerta pubblica d’acquisto in caso di controllo di fatto – abbia di fatto spuntato le armi dei piccoli azionisti, esclusi dal premio riconosciuto dagli iberici agli altri soci di Telco: Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Generali.