Ci sono volute le teste di maiale, che qualche imbecille ha pensato bene di far comparire in giro per Roma contemporanea con la giornata della Memoria per ricordarci che nulla è rituale, quando si parla della Shoah. Abbiamo vissuto in questi anni una sorta di overdose memoriale, una pigra e meccanica burocrazia del ricordo, che ha rischiato di trasformare la memoria in un rito vuoto di significato. E invece non deve, non può, e non dovrebbe mai essere così.
Eppure, dei trenta superstiti che sono tornati a Roma da Auscwhitz dopo la guerra (mi raccontava uno di loro, Alberto Sed, proprio domenica sera) ne sono rimasti in vita soltanto sette: «Purtroppo – scherzava Alberto – io sono il più giovane di loro, e ho già 85 anni. Tra poco quelli di noi che sono ancora in vita si conteranno sulle dita di una sola mano». Ci vuole grandissima capacità autoironica per scherzare così, ovviamente, ma il problema esiste: speriamo che accada il più tardi possibile, ma bisogna iniziare a fare i conti con il fatto che prima o poi, anche l’ultimo testimone diretto dell’Olocausto scomparirà, e allora anche le truffe memoriali e le tentazioni negazioniste diventeranno un rischio rinnovato in tutta Europa. La recentissima polemica che si è celebrata in Francia intorno al comico Dieudonné e al suo saluto antisemita, la Quenelle, è per ora solo un campanello di allarme, ma non può essere trascurato. C’è sempre qualcuno che è pronto ad aderire con entusiasmo, alle teorie cospirative e alle campagne di arruolamento all’odio razziale ed etnico.
Shlomo Venezia (Salonicco, 29 dicembre 1923 – Roma, 1 ottobre 2012)
Così voglio approfittare di questa ricorrenza per ricordare uno dei testimoni che è scomparso in questo lungo anno, Shlomo Venezia. Shlomo non era un deportato “come gli altri”: Shlomo era tra i sette sopravvissuti all’Olocausto che potevano dire di essere stati parte dei temibili Sonderkommando, le squadre speciali formate dagli stessi detenuti del campo che si occupavano – per ordine dei nazisti – di accompagnare i deportati nelle camere a gas, di spalare i corpi dopo l’effetto dello Zyklon B, di bruciare i cadaveri dopo la terribile pratica della gasazione e della spoliazione. I sonderkommando venivano periodicamente sterminati per evitare che restassero testimoni diretti dello sterminio. L’ultima squadra si salvò – poco prima della Liberazione – dopo essersi ribellata.
Solo pochi anni fa ho avuto la fortuna di partecipare ad un viaggio ad Auschwitz, in cui l’allora sindaco Walter Veltroni era riuscito a convincere alcuni reduci a tornare tra i camini di Birkenau, e Shlomo era tra questi. Viso scultoreo, umore arguto, accento impercettibile di ebreo di Rodi cosmopolita, immancabile fazzoletto a strisce bianche e blu al collo, Shomo fece venire i brividi ai ragazzi romani raccontando nel lager di cosa accadeva con gli attaccapanni. Non scorderò mai la scena in cui tutta la scolaresca, infilata in una delle buche lasciate dalle camere a gas di Birkenau, si stringeva intorno all’ex sonderkommando, mentre disegnava con le mani un invisibile piolo sulla parete di terra: “Dovevamo dire a coloro che stavano per entrare nelle camere a gas di appendere qui i loro vestiti, prima di entrare, e di non dimenticare il numero”. I ragazzi delle scuole romane, ovviamente avevano chiesto a Shlomo: “Ma perché gli chiedevate questo sforzo, se sapevate che non sarebbero mai usciti?”. Sulla faccia di Schlomo si era dipinto un sorriso amaro, e poi aveva iniziato a spiegare: “Perché i nazisti avevano sperimentato che in questo modo si stabiliva una sorta di condizionamento collettivo: i deportati erano convinti che se qualcuno chiedeva loro di ricordare quel numero, era certo che da quelle camere a gas sarebbero usciti fuori”.
Per lungo tempo, dopo quel viaggio, ogni volta che penso al museo degli orrori, e all’inferno in terra che ho visto nel lager più grande d’Europa, l’aneddoto dell’attaccapanni mi fa pensare a quanta violenza può esserci anche in un piccolo gesto. Impedire a chi sta per morire di recitare l’ultima preghiera, di salutare i suoi cari, di tirare l’ultimo conto della propria vita.
Occupare i pensieri con un numero, con una illusione, con un inganno. In questo anno la memoria di Shlomo si è spenta, ma quella di coloro che lo hanno sentito raccontare nella buca di Auscwhitz no.
Ecco perché il miglior modo per non dimenticare potrebbe essere quello di comprare il suo libro, “Sonderkommando Auscwhitz”. Oppure di ricordarsi che la giornata della memoria non è un rito: ma può essere un ricordo vivo appeso ad un attaccapanni, perché nessuno sterminio possa ripetersi, mai più.