Benvenuti in paradiso: vent’anni di Dookie

Anniversario Punk Rock

Oggi, a quasi vent’anni di distanza da quel 1 febbraio 1994, è facile parlare di capolavoro pilotato, di punk per mocciosi, di anima venduta alle major. Ma al tempo, nessuno sospettava che Dookie avrebbe sfondato ogni genere di classifica, nemmeno gli stessi Green Day. L’unica cosa che sapevano, loro, era che quel disco l’avevano scritto senza troppi fronzoli, piazzando gli strumenti nel soggiorno del padre del loro batterista, buttando nel calderone le esperienze e le frustrazioni che avevano coltivato nei sobborghi dell’East Bay, come già era successo per Kerplunk! due anni prima. L’unica cosa che cambiava, questa volta, era l’etichetta, la Reprise, una major, che in ogni caso non avrebbe dovuto interferire troppo con la loro musica e la loro sacrosanta voglia di fare i cazzoni.

C’è un aneddoto che descrive alla perfezione cosa sia Dookie in realtà. Se Billie Joe Armstrong e Mike Dirnt sono amici da una vita è sostanzialmente per via di due cose: la musica e la passione per le droghe leggere. Una sera, dopo una giornata passata a provare i nuovi pezzi, Billie Joe e Mike sono stravaccati sul pavimento della sala prove. Hanno bevuto? Probabilmente. Si sono fatti un paio di canne? Possibile. L’unica cosa certa è che Mike è sotto l’effetto dell’LSD, completamente fatto, e a un certo punto si mette a carezzare le corde del basso, ne esce un riff ipnotico, bellissimo, impossibile da dimenticare. Talmente impossibile che il mattino dopo, quando i postumi vengono a riscuotere il loro dazio, Mike Dirnt non ricorda un accidenti di niente. Ci vorrà l’aiuto degli altri due per ricostruire quel riff. Quello che ne rimane diventerà il giro di basso del primo singolo tratto da Dookie, Longview, una canzone che parla di giornate passate ad ammazzare la noia fumando e a masturbandosi davanti alla televisione.

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Prima di approdare alla Reprise, i Green Day avevano macinato una breve ma intensa gavetta nella Lookout Records, un’etichetta indipendente di Berkeley che a fine anni ’80 era diventata un punto di riferimento per la scena punkrock della Bay Area. Dopo aver inciso qualche EP, ancora minorenni, i tre hanno deciso di lasciare le case in cui sono cresciuti e di andare a vivere da soli. Ma “soli” è un concetto relativo, quando si hanno una manciata di spiccioli in tasca e a malapena l’età per la patente. Così, Billie Joe, Mike e Tre mettono nello zaino quattro cose e vanno vivere in un grande magazzino occupato a West Oakland, uno dei posti più malfamati dell’intero continente. 

Sotto il loro stesso tetto dormono tossici, artisti, vagabondi, musicisti e gangster, passano le notti con le loro cose strette al petto mentre fuori ogni tanto partono colpi di pistola. Questo squat è il teatro di un breve romanzo di formazione, sei mesi per dimenticare i pasti caldi e le camerette con i poster, sei mesi di inferno per capire quale sia il prezzo da pagare per rincorrere i propri sogni, sei mesi passati i quali l’inferno può trasformarsi in paradiso, basta che ci sia un furgone per andare in tour e un’etichetta che crede in te. Dopo essere comparsa in Kerplunk!, nel 1992, Welcome To Paradise viene ripescata e registrata da capo per Dookie, diventando il secondo singolo.

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Quando scrive Basket Case, Billie Joe Armstrong non è al corrente di soffrire di quello che la psicologia cognitiva chiama “disturbo di panico”, come non sa che quegli attacchi nevrotici diventeranno l’oggetto della sua canzone più famosa, quella che calcerà i Green Day in testa a tutte le classifiche, assicurando loro un posto di riguardo nella scaletta di qualsiasi cover band per i decenni a venire. Da sempre, BJ soffre di ansia, passa lunghi intervalli in preda ad attacchi di puro terrore, conditi da sudorazione, tremori e nausea. Dopo aver lottato tutta la vita con questo genere d’ansia, Billie Joe decide (parole sue) che l’unica cosa che può fare per affrontare la cosa, è parlarne in una canzone. Nel giro di pochi mesi, quella canzone finirà sulla scrivania di Rob Cavallo, il quale, senza pensarci troppo, deciderà di mettere la band sotto contratto.

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A inizio anni ’90 i Green Day non sembrano destinati al successo, e a dire il vero non sembrano nemmeno una band. Il primo batterista, John Kiffmeyer ha mollato il gruppo per andare al college; il nuovo batterista, un tizio dagli occhi spiritati e un testicolo solo (sì, Tré Cool ha un testicolo solo, ma è una lunga storia), non dà segni di voler mollare definitivamente gli studi per la musica. In tutto questo, Billie Joe non fa altro che organizzare tour che orbitano intorno a Minneapolis. Il motivo è piuttosto ovvio a tutti: durante una data in Minnesota, nel 1990, BJ ha conosciuto una ragazza di nome Adrienne Nesser, e da allora consuma i pochi soldi che guadagna con la band in lunghe telefonate interstatali. Prima che Adrienne acconsenta a trasferirsi in California e sposare Billie Joe, passeranno quattro anni, durante i quali i due arriveranno a lasciarsi. Anche in questo caso, per rammendare lo strappo, BJ scrive una canzone. When I Come Around diventerà il quarto singolo estratto da Dookie, e fino al 2004 rimarrà la canzone dei Green Day più passata dalle radio.

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Billie Joe e Adrienne si sono separati, lei si è messa con Billy Bisson dei Libido Boyz, lui sta con una ragazza di cui non si è mai saputo il nome ma che finirà per ispirare alcune tra le più belle canzoni dei Green Day (Time of Your Life e Sassafras Roots, per citarne due). Insomma, questa tipa è una sorta di talebana del femminismo, e non passa giorno senza che i due si accapiglino su questioni di parità fra sessi. Un giorno, dopo l’ennesimo litigio, lei lo costringe a leggere una poesia femminista intitolata She. Come risposta, lui scrive il testo di una canzone omonima. Qualche tempo dopo la ragazza si trasferirà in Ecuador, e quando verrà a sapere che i Green Day stanno per registrare Dookie, lo sfiderà a inserirla nel disco. Detto fatto. She sarà il quinto e ultimo singolo tratto da Dookie, e diventerà una delle canzoni più incisive della band dal vivo.

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Cavalcando l’onda anomala generata da questi singoli, Dookie scalerà le classifiche, totalizzando oltre 20 milioni di dischi venduti e guadagnandosi, nel 1995, un Grammy come Miglior Disco Alternative. Qualche anno dopo, quando chiederanno ai tre che cosa hanno fatto dopo aver messo sullo scaffale tutto questo ben di dio, Mike Dirnt rivelerà di aver utilizzato i soldi per comprare migliaia di biglietti della lotteria (tutti perdenti), mentre Tre Cool confesserà di aver trasformato il trofeo-grammofono in una pipa per fumare erba.

C’è un secondo aneddoto che aiuta a capire cosa fossero i Green Day al tempo. Siamo nel 1994, Dookie comincia a riscuotere successo e i Green Day subiscono una mitragliata di fango a Woodstock ’94. C’è da organizzare il tour statunitense, e quando chiedono a Billie Joe chi vorrebbe come gruppo di apertura, lui senza esitazione sceglie i Pansy Division, una band della Lookout i cui membri sono dichiaratamente gay. Una scelta presa apposta per mettere in difficoltà quei «coglioni ignoranti» che si presentavano in numero sempre maggiore ai loro concerti e con cui i Green Day non volevano avere nulla a che fare. Va a finire che durante i live, in più di un’occasione, il pubblico comincia a ingiuriare i Pansy Division, e come risposta, quando tocca a loro, i Green Day  finiscono per insultare il pubblico.

Dookie era e rimane questo, un disco scritto e suonato da tre ragazzi di provincia con la fissa del punk-rock, un’inclinazione pseudo-anarchica a fottersene delle convenienze e un pesante bagaglio di frustrazioni ad appesantire le spalle. È difficile, nel febbraio del 1994, individuare in queste 14 canzoni i sintomi del successo epidemico che proietterà i Green Day nell’olimpo del rock’n’roll, come è difficile intuire un futuro fatto di concept album pseudo-politici, duetti con Bono e musical teatrali di dubbio gusto. Vent’anni dopo, i Green Day hanno appena pubblicato un orribile disco triplo, Billie Joe è finito in riabilitazione dopo aver sbroccato dal vivo per colpa di Usher e ai loro concerti arrivano sempre più dodicenni accompagnati dai genitori. Ma questa parte della storia la conoscono tutti, e in ogni caso non merita di essere raccontata.