L’Italia, si sa, è un Paese strano. Sia incubi che salvezze della Patria nascono e muoiono a velocità supersonica, o si tramutano gli uni negli altri.
È il caso dello spread, termine pressoché sconosciuto prima dell’agosto 2011 ma poi divenuto signore e padrone dei destini nazionali: nel novembre 2011 provocò le dimissioni del Governo Berlusconi, giustificò la nascita del Governo Monti e da allora si erige a unico e insindacabile giudice dei governi in carica. Santificato da alcuni, bistrattato da altri, da tutti temuto; pochi punti base al rialzo o al ribasso, nelle fasi più concitate del dibattito politico, finivano per divenire decisivi nella valutazione di una proposta politica o di una qualsivoglia dichiarazione da parte di chicchessia. La domanda “a quanto è oggi lo spread?” – che prima poteva essere scambiata per una domanda al barista su quanto costa l’aperitivo con vino fermo e aperol – è uscita dalla frenetiche sale dei trader e ha invaso la quotidianità degli italiani, che alla fine hanno imparato a conoscere questa nuova spada di Damocle sulle nostre teste.
Negli ultimi giorni lo spauracchio degli ultimi 24 mesi si è magicamente tramutato in salvezza nazionale. Per la prima volta dall’estate 2011, lo spread è sceso sotto quota 200 punti base, dando il via ad una serie di dichiarazioni entusiaste, nonché ad un intenso dibattito su come spendere le maggiori risorse pubbliche così magicamente comparse.
Stanno veramente così le cose?
La confusione, a livello di opinione pubblica e a volte non solo, risiede soprattutto su due concetti, in ordine crescente di importanza:
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I motivi per cui si può assistere a una riduzione dello spread
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La relazione tra spread e andamento dei conti pubblici (e quindi maggiori risorse)
Sul primo punto, come noto, lo spread è il risultato di una sottrazione: il rendimento di un titolo di stato italiano meno il rendimento di un titolo di stato tedesco. Entrambi misurati sul mercato secondario (successivo quindi all’emissione da parte dei rispettivi ministeri del Tesoro), e facenti riferimento a titoli aventi la stessa durata (di solito decennale). È chiaro quindi che lo spread può diminuire per diversi motivi: può diminuire il rendimento italiano, a parità di quello tedesco. Oppure possono diminuire entrambi, ma quello italiano in misura maggiore. Può rimanere fermo il rendimento italiano, e crescere quello tedesco. Oppure, infine, possono aumentare entrambi, ma di più quello tedesco.
FIGURA 1
Il 2013 è iniziato con uno spread intorno ai 280 punti base (che, ironia della sorte, è più o meno il livello a cui era nei giorni in cui nacque il governo Letta; per cui analizzare l’andamento dello spread nel 2013 è equivalente ad analizzarlo nel periodo in cui il governo Letta è stato in carica nell’anno appena concluso), mentre ora è intorno ai 200 punti base.
A quale delle seguenti fattispecie di cui sopra appartiene questa riduzione di 80 punti base?
La figura 2 mostra il rendimento dei Btp decennali nel corso del 2013. Esso ha iniziato l’anno al 4,2%, toccando il minimo (3,8%) proprio nei giorni dell’insediamento del Governo Letta. Il rendimento del 3 gennaio 2014 è il 3,93%.
FIGURA 2
La figura 3 mostra invece il rendimento dei Bund tedeschi, che iniziano il 2013 intorno a 1,4%, e raggiungono anche loro il minimo annuo (1,2%) nel periodo in cui Enrico Letta si insediava a Palazzo Chigi. Al 3 gennaio 2014 il Bund era a 1,94%.
FIGURA 3
Ricapitolando. Se guardiamo l’interno 2013, la riduzione di 80 punti dello spread è stato per circa 27 punti merito della discesa dei Btp, e per circa 54 punti merito dell’incremento del rendimento dei Bund tedeschi. Se invece facciamo l’analisi a partire da metà aprile 2014, vediamo che la riduzione di 80 punti deriva quasi interamente (il 92%) dall’incremento del titolo di Stato tedesco.
Il secondo punto su cui occorre far chiarezza è il legame che esiste tra riduzione dello spread e creazione di maggiori disponibilità nel bilancio pubblico.
L’analisi precedente ci aiuta innanzitutto a chiarire un punto: se la riduzione dello spread è determinata da un aumento del rendimento dei Bund invece che da una diminuzione del Btp, allora la risposta è semplice: non vi è alcun effetto sui conti pubblici, né ora né mai. Anzi, se la riduzione dello spread è dovuta alla quarta fattispecie sopra esaminata (aumento di entrambi i rendimenti, ma in misura maggiore di quelli tedeschi), questo potrebbe addirittura comportare un aggravio sulla spesa per interessi italiana. E quindi, a parità di altre condizioni e del vincolo sul deficit, la necessità di ridurre la spesa pubblica o aumentare la pressione fiscale.
Ma il punto cruciale è capire che quand’anche la riduzione dello spread fosse dovuta ad una riduzione del rendimento del Btp, non vi è alcun effetto automatico e immediato sui conti pubblici. La chiave sta nel comprendere che lo spread non è misurato sul mercato primario (le aste del Ministero del Tesoro), bensì sul secondario. Nel mercato primario il prezzo di un titolo – e quindi il suo rendimento – è determinato dall’interazione tra domanda di titoli del debito pubblico (determinata dai risparmiatori/investitori e dalla loro avversione al rischio) e offerta (determinata dal fabbisogno finanziario della pubblica amministrazione); poiché i Btp sono ovviamente emessi alla pari, il rendimento così determinato corrisponde al tasso di interesse che lo Stato si impegna a versare semestralmente ai detentori del Btp per i successivi dieci anni. E questi interessi impattano, da subito, sulla spesa per il servizio del debito della Repubblica, che nel 2013 è stata di poco superiore agli 80 miliardi di euro. Il “come” e il “quanto” impattano lo vedremo nel punto seguente.
Nel mercato secondario invece il rendimento di un titolo è determinato da domanda e offerta di quel titolo, dopo che è stato collocato sul mercato primario. In altre parole, una volta concluse le aste del Tesoro e collocato il titolo, l’acquirente può rivenderlo immediatamente a un altro risparmiatore, su quello che si chiama mercato secondario e che è propriamente regolamentato. E così può avvenire fino alla scadenza del titolo. Il rendimento in quel caso non è solo, quindi, il valore attuale delle cedole da corrispondere dal momento dell’acquisto fino a scadenza, ma anche il valore attuale della differenza tra prezzo di acquisto (che può essere sopra o sotto il valore di emissione) e rimborso nominale. E in particolare quest’ultima componente – il prezzo d’acquisto – riflette l’“appetito” dei risparmiatori verso quel determinato titolo di Stato, che però è già stato precedentemente emesso e collocato in asta.
È il rendimento sul mercato secondario che entra nel calcolo dello spread. Per cui quando tale rendimento sale o scende durante la giornata, alla spesa per interessi del settore pubblico non accade proprio un bel niente, perché non c’è stato un collocamento in asta (che in media avvengono dalle due alle quattro volte al mese).
Ovviamente sarebbe sciocco e disonesto (e del tutto errato dal punto di vista economico) evitare di sottolineare l’altro pezzo della storia: l’andamento dei rendimenti sul mercato secondario ha un ovvio effetto sui rendimenti del primario quando ci sarà la successiva asta di titoli di Stato. Se il 10 gennaio il rendimento di un Btp sul secondario è 4% e il giorno dopo c’è un’asta di Btp per un controvalore nominale di 3 miliardi, dobbiamo attenderci un tasso di aggiudicazione intorno al 4 per cento. Se fosse di molto inferiore, infatti, un risparmiatore non avrebbe convenienza ad acquistarlo sul mercato primario, visto che un analogo titolo sul mercato secondario di pari durata rende molto di più. E ovviamente, non potrebbe essere di molto superiore al 4%, altrimenti lo Stato starebbe pagando per prendere a prestito i soldi molto di più di quanto il mercato normalmente richiede.
Si può quindi ben comprendere che il rendimento di un titolo di Stato sul mercato secondario ha un puro valore di segnalazione per quanto concerne l’andamento della successiva asta di titoli del debito pubblico; un’asta che può anche non essere immediata e che ovviamente risente di molti altri fattori.
Come se non bastasse, anche una diminuzione del tasso di interesse sul mercato primario (magari indotta da una persistente riduzione dello spread e in particolare del rendimento dei titoli italiani) ha un effetto limitato sulla complessiva spesa per interessi del settore pubblico (i famosi 80 e passa miliardi). Occorre infatti tener conto di due fattori. Il primo è l’ammontare dei titoli in asta quel giorno, che va rapportato ai 2085 miliardi di debito complessivo; il secondo è la struttura del nostro debito, che non è fatto solo di Btp decennali, e che ha ora una vita media intorno ai 6,4 anni: occorre quindi calcolare come il minor onere di interessi passivi su una fetta di titoli di Stato di nuova emissione impatti sul costo medio complessivo, dato dalla spesa per interessi diviso lo stock di debito, e attualmente pari circa al 4%. Se il tasso di nuova emissione è inferiore al 4%, il costo medio del debito ne viene influenzato al ribasso; il “quanto” dipende dall’ammontare dei titoli andati in asta, il “entro quanto tempo” dipende – oltre che dal fattore precedente – dalla vita media residua dei titoli di Stato attualmente in circolazione.
In conclusione. Lo spread è un importantissimo termometro delle condizioni del mercato finanziario, che ogni mese ci compra in media una trentina di miliardi di euro di titoli del debito pubblico attraverso aste bisettimanali. Avere contribuito a ridurlo – assieme alla decisiva azione di Mario Draghi con la “minaccia” delle Outright Monetary Transactions – è un grande risultato degli ultimi due governi, e non deve in alcun modo essere sottovalutato o sminuito. Tuttavia è sbagliato trasmettere l’impressione che qualche decina di punti base in più o in meno determinino automaticamente e immediatamente una maggiore disponibilità di risorse pubbliche. Farlo alimenta, tra l’altro, aspettative che vanno generalmente in direzione esattamente opposta a quella che ora è necessaria.
In Italia, si diceva in apertura, facciamo presto a erigere monumenti o adombrare spauracchi, e facciamo altrettanto in fretta a scacciarli e demolirli. Speriamo una volta tanto che il dibattito pubblico sia abbastanza maturo da evitare sia che lo spread rimanga il padrone del nostro futuro, sia che torni ad essere la versione storpiata di un celebre aperitivo.