Il 2013 sarà ricordato come l’anno in cui la Rete ha rivelato uno dei suoi lati più oscuri, quello della sorveglianza globale. Ma non è il solo. Da aggiungere c’è anche la piaga dello sfruttamento del lavoro digitale tramite l’esternalizzazione, in paesi come il Bangladesh, delle attività più controverse del web marketing. Mi riferisco al mercato, in costante crescita, delle click farm. Letteralmente questa espressione significa “fabbrica di click” e con essa si indicano tutti quei servizi che si occupano di vendere follower su Twitter, like su Facebook, visualizzazioni su YouTube e molte altre forme di interazione sulle piattaforme sociali.
Poiché tutti questi siti hanno adottato politiche restrittive sugli account fasulli, le click farm utilizzano migliaia e migliaia di lavoratori sottopagati il cui unico, meccanico e ripetitivo compito è quello di cliccare manualmente su tutta una serie di banner che scorrono ininterrottamente, aumentando il capitale sociale del profilo di un rapper di Chicago o del Dipartimento di Stato degli USA. Il Guardian, lo scorso agosto, aveva già reso noto il fenomeno delle click farm con sede a Dhaka, capitale del Bangladesh, ma negli scorsi giorni sono emerse nuove rivelazioni grazie ad un articolo di Martha Mendoza apparso su diverse testate online anglosassoni.
Dhaka è una delle città del mondo con il più basso costo del lavoro. Ha raggiunto la triste notorietà globale il 24 aprile 2013 quando il crollo di un palazzo che ospitava diverse aziende tessili, che producevano anche per marchi occidentali, causò la morte di 1129 persone. Si tratta di uno dei centri caldi della globalizzazione, con molte multinazionali che trasferiscono qui le produzioni per ridurre i costi e massimizzare i profitti. Dhaka è famosa per la sua produzione tessile, ma, a quanto sembra, è anche una delle città al mondo più attive sui social network.
Sui social il numero di interazioni prodotte è una delle principali metriche attraverso cui si stabilisce quanto un determinato utente sia autorevole. Avere dei buoni numeri diventa così fondamentale per chiunque faccia affari, direttamente (come nel caso degli e-commerce) o indirettamente (come nel caso dei siti che vendono pubblicità agli inserzionisti). Avere dei buoni numeri sui social network è dunque utile per aumentare i propri profitti, oltre che la propria popolarità. Questi meccanismi creano dei circoli perversi per cui quello che si ricerca è raggiungere più persone possibile a scapito della qualità dei contenuti, sfruttando tutte le scorciatoie, anche quelle che implicano una certa spregiudicatezza, correndo sul filo della concorrenza sleale e dell’inquinamento del mercato. Una delle conseguenze estreme di tutto questo ha portato alla creazione di centri specializzati in città popolose e a basso reddito come Dhaka, un fenomeno che si può definire come delocalizzazione dei like, una nuova forma di sfruttamento di questa nostra globalizzazione nella sua forma digitale.
Uno di questi servizi, se ne trovano a dozzine su Google, si pubblicizza affermando che attraverso il suo utilizzo, “ogni azienda o individuo può dare una piccola spinta alla propria credibilità [!] ricevendo un numero minimo garantito di follower”. Il catalogo è ampio e soddisfa tutte le esigenze e i portafogli. Si va dai 12$ per 250 condivisioni su Google+, 1000 follower su Instagram per 12$, 1000 ascolti su Soundcloud per 9$. Si possono ottenere 1 milione di follower su Twitter per circa 600$. Sebbene queste attività siano decisamente scoraggiate dalle politiche dei maggiori social network, non esistono ancora leggi specifiche che regolamentino (o vietino esplicitamente) l’utilizzo di account creati appositamente per sparpagliare nel web condivisioni spurie e apprezzamenti prezzolati. Una recente ricerca menzionata dalla Mendoz ha evidenziato che buona parte dei like sulla pagina del calciatore Leo Messi (51 milioni di fan) , sulla pagina di Facebook stesso dedicata alla sicurezza (7 milioni) e anche sulla pagina di Google (15 milioni) provengono dalla città di Dhaka. Nel 2013 il Dipartimento di Stato americano, invece, è stato molto popolare nella città del Cairo, che ha contribuito al successo della pagina con oltre 400.000 like.
Ma bisogna fare un passo indietro. La domanda da farsi è: che fine hanno fatto i bot? Un tempo la rete era un luogo strano fatto di pseudonimi e identità fittizie dove, volendo, non era molto difficile mantenere un certo anonimato. Celebre, anche se non più attuale, è la vignetta in cui una simpatica creatura a quattro zampe golosa di ossi si compiace del fatto che “su Internet nessuno sa che sei un cane”. Nonostante una certa retorica sul fantomatico popolo del web, quei giorni, per fortuna o purtroppo, sono finiti. Colossi come Facebook e Google hanno infatti deciso che i loro utenti dovessero utilizzare i loro servizi mantenendo la propria identità reale. Naturalmente gli account considerati autentici e affidabili vengono privilegiati dagli algoritmi di ricerca di entrambi, con il fine di creare un web di individui (leggi: consumatori) verificati. Sfruttando questo stato di cose, nel recente passato si utilizzavano sistemi automatici in grado di creare in tempo zero centinaia di account con relative interazioni, i cosiddetti bot. Il fenomeno del traffico automatico è combattuto dalle attuali politiche dei colossi del web, si pensi che nemmeno un anno fa è stato tirato giù su segnalazione di Microsoft una rete di bot che coinvolgeva quasi 2 milioni di pc, generando 3 milioni di click fasulli al giorno, per un guadagno stimato di 1 milione di dollari all’anno, dal 2009. Facebook e Twitter nel loro percorso verso la quotazione in borsa e Google per un preciso piano di sviluppo, vogliono solo utenti autentici e hanno dichiarato guerra ai bot. Vincendo. Eppure, mentre i social network imparano a bloccare gli account fasulli con sempre maggiore efficacia, un’esercito di disperati a Dhaka è pronto a distribuire migliaia di like (veri) in cambio di pochi dollari. Quello dei bot è stato un problema ampiamente affrontato nell’ultimo anno e l’esplosione delle click farm è in parte una risposta alle misure adottate dai giganti del web per tentare di arginarlo.
Si tratta, come nel caso dei robot di Amazon, di una guerra tra macchine e umani combattuta con le armi dell’abbattimento dei costi del lavoro. I robot saranno anche adatti a spedire i pacchi, ma per le condivisioni sui social network sembrano ancora essere necessari gli esseri umani. Anzi: le persone lo sanno fare a un prezzo più basso, per il momento. È un’amara vittoria per il genere umano. Per il momento, almeno nel mercato nero dei like, sfruttare persone in carne e ossa, che raccolgono briciole di quella ricchezza e quel valore aggiunto che come formichine aituano a creare, risulta essere più conveniente che creare macchine che non sembrino tali. Il web ha cambiato l’ecosistema dell’informazione e la distribuzione dei prodotti di intrattenimento. Democratizzazione, abbassamento dei costi di produzione e una infrastruttura leggera in continua evoluzione hanno permesso l’instaurarsi di quella che viene chiamata economia della condivisione, in cui siamo tutti potenziali produttori e distributori. L’esempio delle click farm, unendo i peggiori aspetti della globalizzazione economica alle aberrazioni dell’infotainment, mette a repentaglio uno dei fondamentali valori su cui si regge l’economia della condivisione. Mi riferisco alla fiducia.
L’economia della condivisione è stato un sogno ad occhi aperti a cui abbiamo tutti fatto finta di credere?
Il web ha profondamente modificato il modo in cui vengono fruite le informazioni. In un certo senso, si è anche accorciata la distanza tra chi scrive e chi legge. Non è mai stato così semplice come ora attraverso i social network contattare l’autore di un articolo per criticarlo, esprimergli il nostro appoggio o, addirittura, correggerlo. Il web ha avuto il potere, e il merito, di scardinare le gerarchie su cui si reggeva la nostra società. Eppure, il caso delle click farm di Dhaka rende evidenti i limiti di quell’ideologia definita dai suoi detrattori come “ottimismo tecnologico”. Personaggi come Evgeny Morozov, autore di To save everything click here, si pongono in diretto contrasto verso tutti coloro che pensano che il progresso della tecnologia possa essere di per sé sufficiente a risolvere i problemi dell’umanità e a migliorarne le condizioni di vita. La critica principale a Internet è quella che lo vede come un feticcio che nasconde le elite della tecnocrazia che stanno accrescendo così il loro potere. Stiamo forse vivendo tutti quanti in una fantasmagoria collettiva che ci costringe, in una sorta di sindrome di Stoccolma, ad adorare quelle tecnologie che invece ci stanno sottomettendo? Dopo il caso NSA e la conseguente perdita di fiducia nel benessere promesso dall’età dell’informazione, sembrano davvero lontani i giorni in cui Internet veniva candidato per il Nobel alla pace.
E il nostro paese? Se prendiamo la situazione da questa prospettiva, considerando anche gli strascichi delle polemiche sulla web tax e provvedimenti affini, l’Italia è in una strana controtendenza. Da una parte non siamo ancora riusciti a cogliere tutti i benefici di un’economia che sappia sfruttare le potenzialità della rete, e ne paghiamo lo scotto, dall’altra non sappiamo bene che decisioni prendere nel futuro più prossimo (come dimostra l’ignavia del governo in materia di Agenda Digitale). Tuttavia, non sarebbe certo un gran miglioramento se i numerosi call center sparsi per la penisola si trasformassero nottetempo in click farm. Forse ha ragione Morozov, e quella di Internet è soltanto una malsana ideologia che sacrifica l’umanità di tutti noi sull’altare di un capitalismo aggiornato nella sua versione 2.0. E allora, perché sollevarsi contro la web tax? Forse che Boccia è una groupie segreta di Morozov? La questione, purtroppo, non è così semplice e non si può risolvere con una battuta. Eppure, mentre qualcuno si chiede se il web ci rende liberi, per ora il rischio all’orizzonte è soltanto quello di diventarne, in un modo o nell’altro, schiavi.