Altro che banche più sicure. A oltre sette anni dallo scoppio della bolla subprime, l’universo bancario mondiale resta in uno stato fragile e suscettibile agli shock. E le autorità globali non possono far altro che prenderne atto e cercare di non calcare la mano per non urtare l’economia reale alimentando il credit crunch, anche se a discapito di una maggiore sicurezza finanziaria. Si possono leggere così le ultime decisioni del Basel Committee, l’organo composto dai banchieri centrali del G10 che opera sotto il patrocinio della Banca dei regolamenti internazionali. Decisioni che sono viste in modo positivo dagli istituti di credito, ma che stanno fallendo l’intento originario, cioè migliorare la vigilanza bancaria.
Il più grande mutamento è quello del leverage. In pratica, si tratta del rapporto fra l’indebitamento finanziario netto e il patrimonio netto di una banca. Un indicatore significativo, che rappresenta uno dei termometri per capire il grado di rischio di una banca. Ora il Basel Committee ha deciso di alleggerire le regole, favorendo in modo rilevante le banche. In sostanza, ora il leverage è rappresentato dal rapporto fra il capitale della banca e tutti gli asset in pancia. Non c’è più quindi un aggiustamento per il rischio ponderato per ogni classe di asset, come invece contenuto nella prima versione delle regole di Basilea III, che definisce gli standard patrimoniale che dovranno adottare le banche nel prossimo futuro. Lo stesso Comitato di Basilea ha infatti spiegato che «l’indice di leva finanziaria vuole essere una misura semplice, non basata sul rischio, volta a integrare e rafforzare i coefficienti patrimoniali ponderati per il rischio». Peccato che data la complessità delle operazioni finanziarie, il tentativo di ricondurre tutto a un modello semplificato ha finito per creare delle condizioni migliori per gli istituti di credito.
Il leverage ratio viene quindi ora concepito in modo diverso. Per esempio, ora si parla di Securities financing transaction (Sft), un paniere di operazioni all’interno del quale rientrano anche i repurchase agreement, o repo. Si tratta dei pronti contro termine, coi quali una banca può ottenere risorse finanziarie a breve termine utilizzando i propri titoli in pancia. Ma vengono conteggiati anche diversi strumenti derivati che prima non erano considerati come validi al fine del leverage ratio, sebbene sotto precise circostanze. Ciò significa che più si allunga la lista di asset, più si diluisce il rischio. Il risultato è che le banche avranno meno oneri per il raggiungimento delle quote di capitale da accantonare come cuscinetto di protezione. Non solo. Avranno anche più tempo per adeguarsi. Come spiega il Basel Committee «la calibrazione definitiva, ed eventuali ulteriori adeguamenti alla definizione dell’indice, sarà effettuata entro il 2017». Ancora tre anni di tempo, quindi. Il tutto con uno scopo, continua il Comitato: «Trasformare l’indice in requisito minimo nell’ambito del primo pilastro (requisiti patrimoniali minimi) il 1° gennaio 2018». Sempre che non ci siano altre modifiche per spostare l’orizzonte temporale in avanti.
L’altro termine cruciale per capire l’evoluzione introdotta dal Basel Committee è Liquidity coverage ratio (Lcr), che rappresenta un indicatore della liquidità nel breve termine. Al suo interno sono contenute le High quality liquid assets (attività liquide di elevata qualità, o Hqla). Queste, per definizione del Comitato di Basilea, sono attività «non vincolate che possano essere facilmente e immediatamente convertite in contanti nei mercati privati per soddisfare il fabbisogno di liquidità delle banche stesse nell’arco di 30 giorni di calendario in uno scenario di stress di liquidità». Traduzione: liquidità di cassa, riserve detenute presso la Banca centrale, titoli emessi da Stati ed enti sovranazionali, covered bond con un rating pari almeno ad AA, obbligazioni societarie con rating da A+ a BBB-, determinati titoli azionari non vincolati, determinati titoli garantiti da mutui residenziali con rating pari o superiore ad AA. Il Lcr è unito a un altro indicatore, il Net stable funding ratio (Nsfr), che invece si preoccupa di andare oltre l’orizzonte temporale mensile del Lcr. Dopo una prima revisione del Lcr, che ha ampliato il pool degli strumenti utilizzabili per il conteggio finale, il Basel Committee ha previsto una consultazione con le banche e i regolatori al fine di adattare, o in termine politichese armonizzare, le regole per l’inserimento dei titoli nel Nsfr. È prevedibile quindi che ci sarà un altro allentamento delle regole, in modo da permettere agli istituti di credito di raggiungere il limite minimo del Nsfr con meno sforzi.
Ancora una volta, le autorità finanziarie hanno fallito lo scopo di rompere il vincolo vizioso del Too-big-to-fail. Le banche troppo grandi per fallire esistevano, esistono ed esisteranno. Questo perché oltre a essere troppo grandi per fallire sono anche troppo grandi per essere salvate dalla mano del privato, almeno in questa fase storica. Considerando il nuovo alleggerimento delle regole per il Liquidity coverage ratio, è verosimile ritenere che i rischi finanziari non saranno ridotti, ma solo trasformati, trasferiti e, nel migliore dei casi, solo mitigati. In caso di shock nei prossimi tre anni, cosa succederà? Ed ecco che si torna al solito schema: in caso di problemi, meglio rivolgersi alla propria banca centrale di riferimento. Il Comitato di Basilea è stato esplicito. «L’Lcr si basa sul principio che la prima linea di difesa delle banche contro gli shock di liquidità dovrebbe essere l’autoassicurazione, e che le banche centrali dovrebbero rimanere prestatori di ultima istanza», ha spiegato. Tuttavia, continua il Basel Committee, «va riconosciuto che le banche centrali potrebbero rappresentare la fonte più affidabile di liquidità a disposizione delle banche in situazioni di tensione». Altro che bail-in, quindi, come invece stanno spingendo le autorità europee. Se un’entità entrerà in una fase emergenziale di rilevanza sistemica, saranno le banche centrali a fare il lavoro sporco. Un male necessario?
La realtà, molto spesso, è ben lontana da quello che l’opinione pubblica pensa. È trendy parlare delle malversazioni contabili delle banche, degli eccessi della finanza, dell’uso smodato del leverage e degli strumenti finanziari derivati. Ma dietro alle critiche, certo doverose, non c’è abbastanza competenza tecnica. Un esempio sono proprio i derivati, che sono fondamentali per l’attività quotidiana delle banche grazie al processo di copertura dai rischi del quale possono protagonisti. L’universo bancario, anche dopo il collasso di Lehman Brothers, è ancora insicuro, instabile e vulnerabile agli shock, sia endogeni sia esogeni. Ma data la ramificazione dei soggetti e l’interdipendenza fra di loro, è ragionevolmente impensabile che si possa rivoluzionare l’intero settore dall’oggi al domani. Certo, si poteva (e si può fare di più), ma le attuali condizioni forse non permettevano altro. Il credit crunch, soprattutto nell’eurozona, è ancora elevato e chiedere l’accantonamento di ulteriori capitali agli istituti di credito si sarebbe tradotto in un’amplificazione di questo fenomeno. Con la scusa di non urtare l’economia reale, però, si è persa un’altra occasione per rendere più sicuro un sistema bancario che ancora oggi è traballante. Peccato.