Dublino, Madrid, Lisbona, Atene: le 4 facce della crisi

La zona euro dopo la grande paura

La narrativa delle crisi dell’eurozona è mutata. La sua storia pure. Una lieve ripresa economica, seppur disomogenea e assai fragile, è arrivata e sul fronte finanziario le tempeste vissute fra 2010 e 2012 sono un ricordo. Il 2014 inizia con le quattro storie: due di sostanziale successo, due chiaroscurali ma comunque più positive delle aspettative. Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia sono i Paesi che hanno richiesto un programma di salvataggio alla troika composta da Commissione Ue, Banca centrale europea (Bce) e Fondo monetario internazionale (Fmi). I primi due ne sono usciti, il terzo lo sta per fare e il quarto, nonostante le enormi difficoltà, potrebbe farlo prima del previsto. Quattro nazioni che hanno avuto crisi diverse l’una dall’altra, quattro nazioni per le quali il tunnel della peggiore crisi dal Secondo dopoguerra sta terminando, quattro esempi di come la troika ha agito – ora bene, ora male – per fronteggiare l’emergenza.

IRLANDA

La storia più significativa è forse quella dell’Irlanda. Dopo l’adesione al programma di salvataggio del novembre 2010, per un controvalore di 85 miliardi di euro, Dublino ha faticato per adempiere alle misure contenute nel memorandum of understanding sottoscritto con la troika. Ma dopo tre anni, è uscita dalla vigilanza, serrata, di Commissione Ue, Bce e Fmi. Non solo. È tornata, con successo, sui mercati obbligazionari. Lo ha fatto pochi giorni fa con l’emissione di un bond decennale, scadenza nel marzo 2024, del valore complessivo di 3,75 miliardi di euro. Un buon inizio per l’Irlanda, che ha ricevuto domande per 14 miliardi di euro per tale emissione, con una maggioranza di richieste dall’estero. Non era così scontato. Lo ha ammesso anche John Corrigan, il numero uno della National treasury management agency (Ntma), l’agenzia del debito pubblico irlandese. «Gli investitori ci hanno dato fiducia, hanno creduto nel nostro lavoro e in quello delle autorità europee. Si può dire che il peggio sia passato», ha detto Corrigan. I fatti, per ora, gli hanno dato ragione. 

All’origine della crisi irlandese che poi ha portato al bailout c’erano le eccessive malversazioni delle banche del Paese. Imbottite di mutui subprime e capaci di avere un leverage, cioè il rapporto fra l’indebitamento finanziario netto e il patrimonio netto di un’entità, più simile e quello delle banche statunitensi che a quello delle europee, hanno dovuto alzare bandiera bianca, trascinando con loro l’intero Paese. Si è trattata quindi di una crisi bancaria, invece che fiscale. Le banche sono state ristrutturate, non senza qualche problema, Anglo Irish e Bank of Ireland su tutte. Fu creata infatti la National asset management agency (Nama), una bad bank statale all’interno della quale sono stati inseriti tutti gli asset deteriorati degli istituti di credito irlandesi. E ci fu anche il supporto della banca centrale nazionale, che tramite l’Emergency liquidity assistance (Ela), lo speciale programma di liquidità emergenziale della Bce, ha fornito linee di credito alle banche del Paese, per almeno 28 miliardi di euro, al fine di evitare il peggio, cioè uno scenario simile a quello vissuto in Grecia o a Cipro.

Dopo tre anni in apnea, l’economia irlandese ha ricominciato a crescere. Le ultime stime economiche della Commissione Ue, diramate lo scorso autunno, parlano chiaro. Il Pil, dopo una stagnazione sia nel 2012 sia nel 2013, tornerà a crescere dell’1,7% nell’anno in corso e del 2,5% nel 2015. Il debito pubblico, anche alla luce dei ripetuti interventi in sostegno degli istituti di credito, rimane molto elevato: nel 2014 sarà pari al 120,4% del Pil. Solo nel 2015 sarà iniziata una parabola discendente. Il deficit pubblico, seppur oltre i parametri fissati dal Fiscal Compact, è in netto calo. Dall’8,2% del Pil fatto segnare nel 2012 si passerà al 5% del 2014 e al 3% del 2015. Sia Ue sia Fmi, che ha riconosciuto gli sforzi fatti dal governo irlandese negli ultimi tre anni, hanno ribadito che saranno raggiunti questi obiettivi, considerati realistici. Non è un caso che sui mercati obbligazionari, Dublino sia posizionata meglio dell’Italia. Sulla piattaforma Mts, il rendimento dei bond decennali irlandesi è intorno al 3,30%, con un differenziale rispetto al Bund tedesco di pari maturity di circa 140 punti base. Per fare un paragone, i Btp decennali italiani viaggiano intorno a un tasso d’interesse del 3,90% in queste settimane. Sessanta punti base in più di quelli irlandesi, quindi, nonostante il bailout sovrano tanto criticato dagli euroscettici. E i bond irlandesi a dieci anni sono anche più performanti dei Bonos spagnoli, fluttuanti intorno a un rendimento del 3,80 per cento.

La cura della troika ha quindi funzionato, come aveva scritto Linkiesta in tempi non sospetti. Il primo ministro irlandese Enda Kenny nell’ottobre 2012 aveva garantito che l’uscita dal programma di salvataggio sarebbe avvenuta secondo i tempi previsti. E così è stato. Certo, alcuni problemi rimangono ancora, come la disoccupazione o la fragilità del sistema bancario, ma il peggio è passato. Con il ritorno sul mercato obbligazionario, Dublino ha dimostrato che gli sforzi non sono stati vani. A testimonianza di ciò è arrivato anche il commento positivo di tre banche: Credit Suisse, Deutsche Bank e Goldman Sachs. Tutte e tre hanno spiegato, in diversi report, che pe Dublino si può parlare di un’operazione di salvataggio riuscita. Passata la tempesta, ora bisogna però pensare alla ricostruzione. Farlo non sarà semplice, ma avendo la fiducia degli investitori dalla propria parte sarà più semplice. I controlli delle autorità internazionali – Commissione Ue, Bce, Fmi – ci saranno ancora, anche se più sporadici. Ma almeno il respiro sui mercati obbligazionari è garantito per un ragionevole periodo temporale.

SPAGNA

Il secondo caso di successo è quello della Spagna. La compagna di sventure dell’Italia fra 2011 e 2012 ha chiesto un programma di salvataggio per il proprio sistema bancario nel finale di due anni fa, per complessivi 41 miliardi di euro. Sommerse da una bolla immobiliare di proporzioni gigantesche, le banche iberiche a fine 2012 avevano qualcosa come 170 miliardi di euro di Non-performing loans (Npl, crediti dubbi). Non solo. L’esposizione delle banche spagnole sul settore immobiliare, secondo il Banco de España, era di 610 miliardi di euro. Una montagna che rischiava di crollare. Allo stesso tempo, la situazione dei conti pubblici spagnoli non era migliore. Il debito pubblico infatti passò dai 436,98 miliardi di fine 2008 ai 804,39 miliardi del secondo trimestre del 2012, in una impennata che non ha avuto precedenti nell’eurozona. A quel punto, il governo di Mariano Rajoy decise che si doveva ripulire l’intero sistema per dare un segnale agli investitori. Del resto, la pressione sui mercati obbligazionari, sia primari sia secondari, era divenuta insostenibile. Come successo per l’Italia, i rendimenti promessi dal Tesoro iberico, arrivati oltre il 7% sui Bonos decennali, stavano spingendo la Spagna verso l’estromissione dai mercati. Poi, dopo la richiesta di aiuto e gli stress test bancari condotti da Roland Berger e Oliver Wyman, la svolta. La tensione si è allentata gradualmente, gli investitori hanno potuto avere informazioni più dettagliate su cosa c’era nel bilancio degli istituti di credito spagnoli e la fiducia è tornata, complice un governo che nonostante le difficoltà ha un orizzonte temporale più ampio di quello italiano, per esempio.

Anche nel caso della Spagna, si è trattata di una crisi bancaria. Le avvisaglie c’erano tutte. Verso la fine del 2008 l’allora governatore del Banco de España, Miguel Ángel Fernández Ordóñez, lanciò un monito al premier del tempo, José Luiz Rodriguez Zapatero. «Ci sono circa 450 miliardi di euro nei bilanci che sono da riferire al settore immobiliare e il 20% di questi è già deteriorato», disse Ordóñez. Zapatero, dopo un’iniziale riluttanza, decise di lanciare il Fondo de Reestructuración Ordenada Bancaria (Frob), il piano governativo di ristrutturazione bancaria con una dotazione di 90 miliardi di euro. Troppo poco e troppo frenato dagli interessi politici ed economici del Paese, il Frob non riuscì nel suo intento. Serviva qualcosa di esterno, di imparziale. E il cambio di registro è infatti avvenuto con il piano della troika, che ha avuto il supporto dello European stability mechanism (Esm), il fondo permamente a tutela della stabilità finanziaria europea guidato da Klaus Regling. Secondo Regling il Paese ha fatto ciò che doveva fare per evitare il peggio, sebbene la sentiero sia completo solo per una parte.

Così come per Dublino, anche per Madrid la partita per uscire a pieno dalla crisi non è ancora finita. Lo confermano le previsioni economiche della Commissione europea. Il Pil, dopo un calo dell’1,6% nel 2012 e dell’1,3% nel 2013, crescerà solo dello 0,5% nell’anno in corso e solo nel 2015 si tornerà sopra il punto percentuale, con un più 1,7 per cento. Se sul fronte bancario e qu quello obbligazionario la situazione è tornata alla normalità, ci sono tre punti macroeconomici che destano preoccupazione. Il primo è la deflazione, ovvero il calo generalizzato dei prezzi al consumo, lo spauracchio della Bce.

Il secondo è il tasso di disoccupazione. Dopo essere passato dal 25% del 2012 al 26,6% dell’anno appena concluso, l’Ue prevede un calo di due decimali per il 2014 e nel 2015 si dovrebbe tornato intorno al 25 per cento. Troppo, in ogni caso. Per ridurlo, la Moncloa ha in mente di portare avanti una riforma del lavoro nei prossimi mesi. Si vedrà se, quando e come darà frutti.

Il terzo problema sono i conti pubblici. Il rapporto deficit/Pil, che era del 10,7% nel 2012, è passato al 6,8% nell’anno successivo e per quello attuale dovrebbe attestarsi intorno al 5,9 per cento. Ma le stime della Commissione vedono un rialzo, a quota 6,6% nel 2015. In pratica, più del doppio del limite del Fiscal Compact. Per ora c’è la tolleranza di Bruxelles, consapevole che Madrid ha adottato buona parte delle misure della troika. E a spaventare c’è anche il debito pubblico. Dall’86% del rapporto debito/Pil fatto segnare nel 2012 si passerà al 104,3% nel 2015. E considerato che le esigenze di rifinanziamento spagnole non sono poche, circa 270 miliardi di euro per il 2014, è facile capire quanto siano fragili le finanze pubbliche di Madrid. Tuttavia, l’esperienza spagnola può insegnare qualcosa anche all’Italia. Senza un governo stabile, è impossibile avere una visione lungimirante e credibile di fronte agli investitori. 

PORTOGALLO

La terza storia è quella del Portogallo. Il primo ministro Pedro Passos Coelho, poco prima di Natale. «Potremo considerare le opzioni di uscita dal programma di salvataggio in gennaio. Ne parleremo coi partner internazionali». E in effetti, le negoziazioni fra Lisbona e la troika sono a buon punto. In questi giorni il Portogallo ha spiegato di voler testare l’umore degli investitori tornando sul mercato obbligazionario con un’emissione sovrana, proprio come fatto dall’Irlanda. Fonti della Commissione Ue spiegano a Linkiesta che il Paese è sulla buona strada per seguire le orme di Dublino. «Nonostante diverse aspetti siano ancora molto controversi e non tutte le misure siano state applicate in pieno, è innegabile che gli sforzi del Paese sono stati elevati e ci attendiamo che possa ritrovare l’accesso ai mercati secondo quanto previsto dal piano». In altre parole, entro il primo trimestre dell’anno anche il Portogallo potrebbe chiudere uno dei capitoli più bui della sua storia economico-finanziaria.

A differenza di Dublino e Madrid, la crisi portoghese che ha portato al bailout ha avuto un origine sia fiscale sia politica. La debolezza dei conti pubblici, unita alla scarsa competitività del Paese e a una situazione politica instabile e precaria, che ha visto un avvicendamento tra José Sócrates e Passos Coelho nel 2011, ha provocato una spirale negativa intorno al Paese. La pressione degli investitori si è fatta sempre più intensa, con un mercato obbligazionario fibrillante che ha fatto saltare tutti gli schemi del Portogallo. Dopo Atene, fu Lisbona a perdere la credibilità. E nemmeno dopo la richiesta ufficiale di aiuto, avvenuta nella primavera del 2011 e comprensiva di un’erogazione di 78 miliardi di euro, la tensione sui bond lusitani si è ridotta. Il calo dei rendimenti delle obbligazioni portoghesi si è avuto solo nel lungo periodo, anche grazie alle Outright monetary transactions (Omt) della Bce, il programma di acquisto di bond governativi – ancora non testato – lanciato nel settembre 2012. Attualmente i rendimenti dei titoli di Stato portoghesi con scadenza a dieci anni non sono paragonabili a quelli irlandesi. Sulla piattaforma Mts veleggiano intorno al 5,40%, con un differenziale rispetto ai Bund di pari maturity di circa 350 punti base. Questo perché sebbene la via d’uscita dal tunnel sia tracciata e la luce, seppur fioca, si inizia a vedere, restano diversi incognite.

La prima, più grande, è la situazione politica. Il premier Passos Coelho e il suo governo hanno rischiato più volte negli ultimi due anni di saltare. Per precarietà, il Portogallo ricorda molto l’Italia. Questo è un aspetto che ancora indispettisce gli investitori, che chiedono quindi un maggior premio per il rischio sul mercato obbligazionario secondario. Poi, c’è l’incognita dei fondamentali macroeconomici. Le previsioni di autunno della Commissione Ue lasciano poco spazio all’ottimismo, anche se sono migliori della vicina Spagna. Il Pil crescerà dello 0,8% nell’anno in corso e dell’1,5% nel 2015, dopo le contrazioni – pesanti – del 2012 e del 2013, meno 3,2% e meno 1,8% rispettivamente. Il deficit è ancora una volta sopra i parametri del Fiscal Compact, ma è in fase discendente. Dopo il 6,4% del Pil fatto segnare nel 2012, il 2013 si è chiuso con un deficit del 5,9%, che dovrebbe diventare del 4% in quest’anno e del 2,5% nel prossimo. Preoccupa ancora, di contro, il debito pubblico, sempre a un livello di insostenibilità. Nel 2014 sarà al 126,7% del Pil. Una piccola flessione rispetto al 127,8% toccato nel 2013. Il calo però rimane lento, come sottolineato nell’ultimo rapporto del Fmi sul Paese. Nel 2015 le aspettative sono per un rapporto debito/Pil al 125,7 per cento. Traduzione: la dinamica di consolidamento del debito sovrano è troppo lenta e lascia aperte le porte a un eventuale ristrutturazione. Un altro grattacapo per gli investitori, quindi. Se a questo quadro si aggiunge che il tasso di disoccupazione passerà dal 17,4% del 2013 al 17,7% dell’anno in corso, è facile capire quanto non sia terminato il lavoro per far tornare il Paese alla normalità.

Le riforme, specie sul fronte del pubblico settore e del welfare, sono ben lungi dall’essere terminate e l’eventuale ritorno di Lisbona sui mercati obbligazionari non dovrà essere visto come la fine di un’odissea, ma come una nuova fase del percorso di riequilibrio del Paese. È questo ciò che ritiene la banca francese Société Générale, che nelle ultime settimane ha pubblicato un’interessante analisi sul Paese. La mancanza di competitività, la corruzione governativa a più livelli, gli sprechi di denaro pubblico e la poca rapidità nell’implementazione di riforme strutturali potrebbero quindi causare ancora qualche tensione sull’obbligazionario. E questo potrebbe spingere il Portogallo a richiedere al Fmi, cosa non fatta dall’Irlanda, l’accesso a una linea di credito precauzionale al fine di placare sul nascere i possibili malumori degli investitori.

GRECIA

Infine, la Grecia. Il Paese più devastato dalla crisi dell’eurozona, quello che più ha sofferto e più soffre, è ancora lontano dall’uscita dal programma di salvataggio. Nonostante il premier Antonis Samaras abbia ribadito più volte negli ultimi mesi che la fine del tunnel è vicina, l’ultima durante la presentazione del semestre di presidenza ellenica dell’Ue, è probabile che Atene non esca dalla tutela della troika prima del 2015. Questo perché le ragioni della crisi ellenica sono varie e profonde, ben differenti da quelle di tutti gli altri Paesi che sono entrati sotto il cappello della troika. La Grecia ha avuto un’emergenza fiscale, economica, finanziaria, politica, sociale. In una sola parola: strutturale. Tutto questo ha portato alla creazione di due diversi piani di salvataggio, per complessivi 240 miliardi di euro, e un default sovrano su parte del debito, dopo il Private sector involvement (Psi) del marzo 2012, il primo nella storia dell’eurozona. E nonostante questo, l’emergenza non è ancora finita. A tal punto che si parla ancora della possibilità di un Official sector involvement (Osi), ovvero una ristrutturazione del debito sovrano, circa il 70% del totale, detenuto dai partner internazionali, cioè Bce, Fmi e Ue (tramite il fondo European financial stability facility).

Sotto il profilo dei conti pubblici, il disastro è ancora la norma. La situazione più drammatica resta quella del rapporto fra debito pubblico e Pil. Il picco massimo si è toccato nell’anno appena chiuso, al 176,2% del Pil. Nel 2014 scenderà, ma di poco, fino a quota 175,9% del Pil. Nel 2012, quindi a due anni dal primo bailout e dopo la ristrutturazione del debito sovrano in mano ai privati, era a quota 156,9 per cento. E dire che l’obiettivo del Fmi, reiterato ancora dopo le ultime missioni, era quello di riportarlo al 120% del Pil nel 2020. Come farlo senza un Osi è ancora un incognità. L’economia ellenica, infatti, dopo una recessione durata sei anni – fra cui il meno 6,4% del 2012 e il meno 4% del 2013 – stenta a riprendersi. Il tiepido più 0,6% atteso per il 2014, unito al più robusto più 2,9% stimato dalla Commissione Ue per il 2015, è ben poca cosa di fronte alla distruzione che si è verificata. Positivo è invece il bilancio sotto il profilo del deficit. Dal rapporto disavanzo del 9% registrato nel 2012 si è passati a quello del 3,5% fatto segnare nel 2013, ma le cose si stanno evolvendo velocemente. Nel 2014 il rapporto deficit/Pil sarà del 2%, mentre nel 2015 dell’1,1 per cento. Su questo fronte, gli sforzi della troika e del governo greco si sono fatti sentire e il consolidamento fiscale ha dato i risultati più significativi. Niente da fare, di contro, sul versante della disoccupazione, la vera piaga del Paese. Il tasso generale, dopo il picco del 2013 al 27%, calerà di un punto percentuale nel corso di quest’anno, per poi arrivare al 24% nel 2015. Ma si tratta di numeri ancora troppo elevati. «Senza una sostanziale riforma del mercato del lavoro, in grado anche di rendere più libero l’intero settore, è improbabile che scenda sotto quota 20% prima del 2020», ha scritto la banca svizzera UBS. C’è motivo di crederci, data la dinamica in corso.

La corruzione e la protezione degli interessi particolari, due delle principali cause dei difficili negoziati fra la troika e le autorità governative, devono ancora essere debellate. Entrambe rappresentano una delle minacce più rilevanti al ritorno alla normalità dell’economia ellenica, che ha assunto i connotati di un’emergente, invece che quelli di un Paese sviluppato. Caratteristica riconosciuta anche da MSCI, il colosso degli indici azionari globali, che ha declassato il Paese a tal categoria nello scorso novembre.

Per Atene le sofferenze non sono ancora finite. Sarà forse finito il tempo delle menzogne sui conti pubblici. Sarà forse terminato il periodo in cui parte della classe politica era desiderosa di uscire dall’eurozona. Sarà forse finita l’emergenza. Ma di sicuro non è terminato il lavoro della troika. Sul fronte obbligazionario, per quello che conta data la particolare composizione del debito greco, i rendimenti dei titoli decennali sono intorno al 7,70%, un tasso impensabile fino a poco tempo fa, specie considerando i picchi, superiori al 12%, raggiunti nel corso del 2013. Ancora una volta, tuttavia, la partita che si giocherà fra governo Samaras e troika sarà sul campo delle riforme e delle privatizzazioni. «Servono altre misure, più incisive, atte a scardinare il tessuto connettivo che ha distrutto il Paese negli ultimi due decenni», ha scritto la casa d’affari londinese Lombard Street Research. Il 2014, più che l’anno dell’uscita dal programma di bailout, per la Grecia dovrà essere l’anno della consapevolezza della situazione in cui versa la sua economia e del fatto che occorre un cambio di registro importante. Senza di quest’ultimo, non ci potranno essere le evoluzioni che l’intero Paese attende dal 2009.

TROIKA

L’evidenza empirica vede che un fenomeno. A uscire prima, e meglio, dai programmi di salvataggio della troika sono stati i Paesi che hanno registrato una crisi bancaria. Irlanda e Spagna avevano perso la fiducia degli investitori per via delle malversazioni bancarie e, una volta guardato dentro i bilanci dei soggetti del sistema, si è passati a una pulizia degli stessi. In sostanza, ciò che è stato fatto, dopo il collasso di Lehman Brothers, negli Stati Uniti. Gli istituti di credito sono stati controllati, sono stati stressati, sono stati ricapitalizzati. E dopo, gli investitori hanno ricominciato a credere nei Paesi sotto bailout.

Ben diversa è invece l’esperienza di Portogallo e Grecia, due Paesi nei quali oltre a un problema bancario c’era un problema politico e/o strutturale. La piena e totale uscita dalla crisi per Lisbona e Atene è ancora lontana, complice il vortice di incertezza che impedisce una dotta pianificazione degli investimenti, sia domestici sia stranieri, e quindi un ritorno alla calma.

Il maggior difetto procedurale della troika in questi anni è stato forse il suo dogmatismo. O meglio la credenza, poi mutata in corsa non senza diversi ritardi sulla tabella di marcia, che si potesse applicare lo stesso modello a tutti i Paesi che hanno chiesto un sostegno finanziario. Le autorità europee, nonostante le pungolature del Fmi, hanno compreso tardi l’entità delle singole crisi sovrane, cercando poi di porre una pezza che molto spesso, vedasi il Psi sulla Grecia effettuato senza un Osi, ha fatto più danni che benefici. Il vento però ha cambiato direzione. L’uscita dai piani di salvataggio da parte di Irlanda e Spagna, e i segnali positivi che arrivano da Lisbona, possono aiutare l’intera eurozona a creare, con il supporto della Bce, una nuova normalità. A patto che non ci si dimentichi che il percorso è ancora lungo e che senza riforme (e sforzi) da parte di tutti i membri dell’area euro il rischio di un collasso potrà tornare a galla. Capito, Italia?

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