Da qualche settimana a questa parte la mia rassegna stampa del mattino, che comprende diversi magazine di intrattenimento in inglese, è popolata dalle foto di Phil Robertson. Sono foto piuttosto appariscenti e discretamente attraenti. Generalmente rappresentano una specie di Robinson Crusoe con la barba di uno ZZ Top, sulle sponde di una laguna del sud est degli Stati Uniti, acquattato dietro le canne o nell’atto di impallinare qualche anatra ignara. Hanno qualcosa di primitivo e rurale, ma anche una luce chiara di vago respiro hipster. Ho pensato che valesse la pena capire meglio cosa ha fatto Robertson per meritarsi tutta questa recente attenzione, e ho scoperchiato un vaso di Pandora.
Prima di tutto: Phil Robertson è un cacciatore. Poi: è stato un quarterback piuttosto quotato per la Louisiana State University negli anni ’60, tanto bravo da ricevere un’offerta dalla NFL. Negli anni ’70, dopo aver abbandonato la carriera sportiva perché interferiva con la stagione della caccia alle anatre e dopo una laurea ottenuta da studente-lavoratore – faceva l’insegnante di educazione fisica – ha fondato l’azienda che lo avrebbe reso famoso, la Duck Commander, che produce tutt’ora richiami per anatre ed equipaggiamento per la caccia vagante. L’azienda di famiglia oggi è diretta da Willie, suo figlio minore, e muove parecchi milioni di dollari ogni anno. Ma non sono questi i motivi principali per cui si ostina a invadere le mie letture.
Dal maggio 2012 la famiglia Robertson, assieme ai panorami della Louisiana, è protagonista per A&E del reality Duck Dynasty, che ne segue le vicissitudini industriali e gli intrecci personali tra anatre, barbe, preghiere e passatempi che trasudano southern way. Lo show è ancora inedito in Italia, ma i tempi sembrano maturi e i numeri sono decisamente confortevoli: la prima puntata della quarta stagione ha toccato un picco di 11,8 milioni di spettatori in un vortice di controversie abbastanza serrato da rendere tutta l’operazione appetibile per l’esportazione – ma non ci ho mai azzeccato per cui potrebbe non succedere nulla di tutto ciò. Quello che non va, nell’insieme, è l’atteggiamento del patriarca nei confronti della società moderna. Phil era già noto per le sue posizioni ultraconservatrici, che ripuliva e sfoderava in pubblico ogni volta ce ne fosse l’occasione, ma il fatto di trovarsi sotto la lente di un programma dedicato alla propria famiglia deve avere stimolato la sua necessità di protagonismo – una caratteristica per niente rara nei fanatici religiosi, specie di matrice cristiana – e la sua pulsione alla predica scellerata. I media, come sempre, hanno assegnato le fazioni politiche e il pubblico ha fatto il resto.
La sua ultima, e più critica, uscita risale a meno di una mese fa, quando ha rilasciato una lunga intervista a GQ nel corso della quale ha puntato il dito carico di morale cristiana contro i gay – donne o uomini non fa differenza – ha sostenuto che le persone afroamericane dovessero essere, per forza di cose, molto più soddisfatte del proprio tenore di vita prima dei diritti civili e che i giapponesi abbiano perso la Seconda Guerra Mondiale perché non hanno mai accettato Gesù Cristo come proprio salvatore. Dopo di che, in un lasso di tempo molto ristretto, è stato sospeso dal programma, è diventato una specie di eroe folk conservatore e riammesso nel programma a furor di popolo. In realtà io ho molto apprezzato anche il suggerimento, che risale ormai al 2009, di «sposare donne molto giovani, quindici o sedici anni al massimo» che secondo Phil sarebbero più adatte a «raccogliere le anatre», qualsiasi cosa voglia dire.
Una delle prime polemiche a colpire Duck Dynasty, dopo poco dal suo debutto, ha riguardato la frase «nel nome di Cristo». Phil non voleva che venisse tagliata in montaggio, così come non ha voluto che venissero tagliate le preghiere. Quando la rete gli ha spiegato che si trattava di un accorgimento per non offendere il pubblico musulmano ha risposto: «siamo nel 2012 AD, Anno Domini, non vedo perché dovremmo togliere dai dialoghi una verità tanto assoluta». Poi ha voluto sapere quanti musulmani seguivano il programma.
Quello che Phil Robertson ha finito per rappresentare è un esempio deviato di genuinità americana, che si rifà a un sistema becero e sorpassato ma che, in qualche modo coinvolge un pubblico partecipe e entusiasta. Per i liberali è la voce del bigottismo, strisciante e cieco, delle province ma che trova il modo per arrampicarsi fino ai rami più distanti dal terreno, per i conservatori è una fortezza della cristianità, una voce grossa e qualche volta imbarazzante, ma necessaria a perpetrare un valore che andrebbe altrimenti perduto. A parte l’evidente impasse culturale a cui un modello come questo potrebbe condurre, bisogna considerare che Phil non è il prodotto rappresentativo della società più di quanto il network, gli autori dello show e la sua stessa famiglia non abbiano voluto. E lo dimostrano investendo ogni giorno le proprie forze per mantenerlo in linea con se stesso, evidentemente rincuorati e tronfi di una risposta di pubblico così forte da ributtarlo nella mischia una volta che la decenza comune lo aveva voluto fuori. La barba da santone, la maniera enfatica e tranquilla di esprimersi, simile a quella di una guida spirituale, il modo in cui sostiene che le cose vadano fatte sempre e comunque, che non dà spazio ad alcuna replica. Tutto nel comportamento del patriarca Robertson suggerisce rettitudine e pace interiore, una condizione che va in apparente contrasto con l’accento marcato del sud, ma che finisce per trasmettere i valori deviati di cui la famiglia ogni giorno si nutre, molto meglio che un comizio pubblico dal cassone di un pick-up con la bandiera confederata sul cofano. E a provare che forse, in fondo, non ha del tutto torto, c’è la storia del campione del football in grado di tornare sui suoi passi, trovare Gesù in uno stagno e fondare un impero finanziario senza perdere l’attaccamento a quelle che qualcuno deve per forza considerare tradizioni.
Duck Dynasty ha trovato il modo di rimanere legato a un America bassa e che, se per molti non dovrebbe esistere, per altri rappresenta l’unico modo di vedere le cose, e questi ultimi sono quasi tutti dotati di decoder satellitare. Un paese dove il progresso ha l’alito del diavolo ma i soldi non fanno poi così schifo, se si accumulano sotto il materasso e non nelle banche. «Il vecchio Phil può anche essere un po’ crudo» ha twittato Willie Robertson dopo l’allontanamento del padre «ma è sincero». Sarà questo, o sarà una meravigliosa operazione televisiva, un miracolo che abbiamo già visto succedere varie volte, in grado di aggrapparsi alle pieghe oscure e rugginose del populismo attraverso gli artigli di un sentimento superficiale e pronto all’uso.
Come ha rilevato Virginia Cannon in un bellissimo intervento sul New Yorker, ogni puntata si chiude con l’immagine di una cena a famiglia riunita e la telecamera striscia fuori «a riprendere la casa dall’esterno, come un’oasi nelle tenebre. Proprio come finiva Una famiglia americana» con lo stesso senso di sicurezza e di confortevole limitazione degli orizzonti. Per limitare anche i danni, mi piace pensare.