Ecco cosa venderà Marchionne per ridurre il debito Fiat

La sede legale in Uk, quotazione in Usa

Sergio Marchionne qualcosa dovrà pur vendere. Dopo il closing della fusione Fiat-Chrysler e in attesa del piano industriale che sarà licenziato ad aprile, i fondi americani – pallottoliere alla mano – si chiedono quale strategia adotterà il top manager per ridurre un indebitamento pari a 10 miliardi. La cassa del Lingotto è finita di recente sotto la lente di Moody’s (il giudizio è Ba3), che ricorda come Fiat debba rimborsare 6,4 miliardi tra bond e linee di credito entro il 2016 e come i flussi di cassa abbiano ancora il segno meno davanti. Falk Frey, analista dell’agenzia di rating Usa, ha spiegato che l’acquisizione di Chrysler «indebolirà sensibilmente la liquidità di Fiat in un momento in cui ha ancora un cash flow negativo», aggiungendo: «Le linee di credito non utilizzate e il cash flow generato dalle operazioni dovrebbero consentire al gruppo di far fronte alle proprie esigenze di cassa nel 2014». Dopo, chissà. Per questo il mercato considera plausibile una tornata di dismissioni nel nuovo piano industriale. Intanto, secondo quanto rivela Bloomberg, la quotazione sarà a Wall Street mentre la sede legale in Inghilterra.

candidati che sembrano interessare ai fondi anglosassoni sono Magneti Marelli, Teksid e Comau, ovvero schede elettroniche, fonderie e robot. Uno storico analista Fiat di una primaria banca italiana, sotto garanzia di anonimato, riconosce che nessuno dei competitor europei, tranne Renault, controlla direttamente società che si occupano di componentistica. Guardando all’aspetto puramente finanziario, nei nove mesi 2013 i risultati sono tutti in calo: i ricavi di Magneti Marelli passano da 1,42 a 1,39 miliardi, quelli di Teksid da 183 a 169 milioni, mentre Comau scenda da 358 a 323 milioni. Ciò non significa che siano in crisi, anzi: le macchine di Comau, ad esempio, sono utilizzate da Pirelli e Finmeccanica. Con molta liquidità sul mercato e i multipli per la componentistica in salita a circa il 20% delle vendite, il momento potrebbe essere propizio per trovare compratori in grado di riconoscere un prezzo considerato congruo da un abile negoziatore come Marchionne.

Non che l’idea sia nuova. Se ne parlava già nel 2002, anno in cui Ifil (poi confluita nella holding Exor), la cassaforte della famiglia Agnelli, sottoscrisse con un pool di banche creditrici il prestito convertendo da 3 miliardi, con scadenza nel 2005. Allora, con l’aiuto di Merrill Lynch, tramite un rastrellamento azionario – prima negato al mercato e poi ammesso – Exor riuscì ad annullare l’effetto della diluizione derivante dalla conversione del prestito bancario e a mantenere così il controllo sul 30% del Lingotto. Un’operazione che è costata a febbraio 2013 una condanna in appello a un anno e quattro mesi più 600mila euro di multa a testa a Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, le due “menti” del blitz. Nel 2002 l’indebitamento era di 6 miliardi, e la cessione di Teksid avrebbe dovuto portare in dote 550 milioni di euro, a cui aggiungere la cessione di parte di Magneti Marelli e di Immobiliare San Babila.

L’idea riaffiora a fine 2010. Quando, dopo un meeting tra Marchionne e gli analisti, le banche d’affari Usa Morgan Stanley e Goldman Sachs danno conto della volontà di quotare il 39% di Ferrari e cedere Alfa Romeo, Magneti Marelli, Teksid e Comau. Nessuna di esse andò in porto. Sebbene per il giusto prezzo nessun asset sia incedibile, gli analisti interpellati da Linkiesta ritengono che su Ferrari, Alfa e Maserati non tiri aria di dismissione. A fine 2012 l’azienda si era impegnata con l’esecutivo Monti, dopo l’abbandono ai 20 miliardi del progetto Fabbrica Italia, a trasformare l’Italia in hub per l’export delle auto di fascia alta, per un pubblico che può permettersi il made in Italy.

Ferrari a parte, le Maserati oggi si producono negli stabilimenti di Grugliasco e Mirafiori, ma in quest’ultimo dal mese prossimo scatterà la cassa integrazione per 3mila colletti bianchi, oltre che a Termoli e Cassino. «Nel polo Mirafiori-Grugliasco si faranno le Maserati», ha detto Marchionne in un’intervista a Repubblica, aggiungendo: «A Melfi la 500 X e la piccola Jeep, a Pomigliano la Panda e forse una seconda vettura. Rimane Cassino, che strutturalmente e per capacità produttiva è lo stabilimento più adatto al rilancio Alfa Romeo». Un marchio tornato centrale: «La vera scommessa è utilizzare tutta la rete industriale per produrre il nuovo sviluppo dell’Alfa, rilanciandola come eccellenza italiana», ha dichiarato l’ad, che quest’anno festeggia due lustri al volante del Lingotto.

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Su quest’ultimo punto, con un video su Youtube (qui sopra, al minuto 10.35) il fondo americano Greenwood Investors – lungo sul titolo – ha provato a spiegare perché a Fiat non conviene dismettere gli stabilimenti italiani: chiudere una fabbrica costa circa 500 milioni, cifra che se investita nello sviluppo della nuova Alfa Giulia si ripaga in cinque anni.  

Lasciar perdere Teksid, Comau e soprattutto Magneti Marelli – che ha siglato nel 2011 un accordo con Mopar, sua controparte all’interno del gruppo Chrysler – potrebbe non rivelarsi così conveniente dal punto di vista industriale. All’interno del group executive council, il parlamentino Fiat, saranno Eugenio Razelli e Riccardo Tarantini, responsabili della componentistica, a dover scegliere se le tre aziende hanno sviluppato più competenze produttive o di ricerca. Fiat-Chrysler nel 2012 ha speso “solo” 2,81 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, rispetto ai 5 di Ford e ai 7,37 di General Motors. Non va dimenticato che quando arrivò Marchionne, tra le big three di Detroit Chrysler era la casa con il maggior tasso di esternalizzazione. Toyota, al contrario, ha scelto di prodursi da sé i robot per l’assemblaggio dei modelli. Sarà il piano industriale a indicare quanto gli impulsi finanziari influiranno sulle scelte industriali di Fiat, e dunque sulla sua identità prossima ventura.