Cari uomini, pensate a tutti gli stereotipi che vi vengono in mente sul tema donne e denaro, e cancellateli per sempre. Non c’è niente da fare: la dura realtà è che sono loro a decidere quanto, come e dove investire. Non è chiaro se sia un bene o un male, ma è un fatto: sei donne su dieci dichiarano di portare i pantaloni in casa quando si tratta di risparmio.
Il quadro, che qualcuno potrebbe considerare svirilizzante, emerge dall’edizione 2013 dell’Indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani, condotta da Intesa Sanpaolo in collaborazione con il Centro Luigi Einaudi: «Il 59,6% delle intervistate dichiara di proporre o decidere autonomamente gli investimenti del risparmio, il 36,2% di partecipare alla decisione, e solo il 4,2% di non occuparsene. In sostanza, in quasi due terzi dei casi sono le donne a dire la prima e/o l’ultima parola nella scelta sull’impiego delle risorse accantonate», scrive il direttore del Centro Einaudi Giuseppina De Santis, nel capitolo intitolato “Le donne, il risparmio, la crisi…e la fiducia in se stesse“. Il campione utilizzato per l’analisi – le interviste sono state curate da Doxa – è composto da 685 donne di età compresa tra i 18 e i 64 anni titolari di almeno un conto corrente o libretto di risparmio postale.
Scrive ancora De Santis: «Se può non sorprendere che un ruolo positivo/decisionale venga dichiarato dal 72,6% delle intervistate in materie di spese quitodiane e dal 57,1% in materia di casa e condominio, certo è notevole che il 52,3% dichiari lo stesso tipo di ruolo quanto alle decisioni in materia fiscale, e ben il 62,5% (ossia i due terzi) per quanto riguarda la scelta della banca». Il motivo è facilmente spiegabile: l’altra metà del cielo oggi è maggiormente indipendente sul piano reddittuale, e questo «sostiene e rafforza ulteriormente il ruolo delle donne nelle scelte economiche del nucleo famigliare».
Dove la parità tra i sessi continua a rimanere un miraggio è nella retribuzione, che aumenta il peso relativo percepito della crisi: «Le donne che hanno dovuto tagliere le spese sono più degli uomini, e hanno dovuto tagliare di più», recita ancora nel report di Intesa Sanpaolo. Nello specifico, 7 su 10 hanno ridotto la spesa per il tempo libero – come gli uomini – 8 su 10 (7 su 10 gli uomini) la spesa per le vacanze, 7 su 10 (6 su 10 gli uomini) la spesa giornaliera, 6 su 10 (5 su 10 gli uomini) hanno invece intaccato i risparmi accantonati negli anni buoni. Numeri che dimostrano una diversa capacità di reazione, accompagnata però a una maggiore sfiducia nelle istituzioni (59,1% rispetto al 52,5% degli uomini) come l’Europa, la Bce, le istituzioni politiche nazionali e le associazioni di categoria.
Se sono mogli e compagne ad avere un ruolo fondamentale nella gestione dei risparmi privati, lo stesso non si può dire che avvenga in banca o nell’impresa. Stando a quanto evidenzia una ricerca (Occasional paper) di Bankitalia uscita a giugno 2013, «Nelle società italiane (con oltre 10 milioni di fatturato) le donne presenti in Consiglio di amministrazione sono nel 2011 il 14,5 per cento (Cerved Group, 2012). La crescita negli ultimi anni è stata modesta (erano il 13,7 per cento nel 2008). La presenza è appena più consistente tra le imprese piccole: almeno una donna nel 48 per cento delle società con un fatturato tra 10 e 50 milioni contro il 40 per cento in quelle con oltre 200 milioni. La percentuale scende ancora se si considerano gli amministratori delegati: le donne sono il 9,3 per cento del totale, anche in questo caso con un’evoluzione lentissima (erano il 9 per cento nel 2008)».
Non deve stupire: il Global Gender Gap Report 2013 del World Economic Forum, che misura in 136 paesi i differenziali di genere rispetto all’accesso alle risorse e alle opportunità, colloca l’Italia all’71mo posto (80mo nel 2012), dietro a Thailandia, Cina, Romania. Oltre al podio che spetta al proverbiale “modello nordico”, ovvero Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia, nella top ten trovano posto le Filippine, l’Irlanda, la Svizzera e il Nicaragua. Fortunatamente, scrive Bankitalia, la legge sulle quote rosa – approvata nell’agosto 2012 – ha portato «la presenza femminile nei CdA all’11 per cento a novembre 2012, con il 66 per cento delle società con almeno una donna e il 24 per cento già in linea con le previsioni della legge (almeno il 30 per cento dei consiglieri di amministrazione del genere meno rappresentato)». Qualcosina, ma non basta.
Per la Bundesbank, la banca centrale tedesca, se entra nel consiglio d’amministrazione la donna fa danni. Prendendo in esame i risultati di un pool di istituti di credito dal 1994 al 2010, l’istituto centrale di Berlino è arrivato alla conclusione che più donne siedono in consiglio d’amministrazione e più la banca prenderà dei rischi sul mercato: «Nei tre anni successivi all’aumento delle donne nel cda, i rischi sono aumentati […]. Questo risultato è attribuibile principalmente al fatto che le donne vantano meno esperienza rispetto ai colleghi di sesso maschile». In Italia come in Germania, insomma, gli ostacoli sembrano i medesimi: le difficoltà delle donne nell’avanzamento di carriera, e dunque la conseguente inesperienza. Un soffitto di cristallo lungi dall’essere sfondato. Forse, più che di genere, è una questione di meritocrazia.