L’epidemia di Per Wahlöö, tra 1984 e La peste scarlatta

oltre i generi

A occhio e croce viviamo nell’epoca più tassonomica di sempre, almeno a livello letterario. Nella struttura dei generi, consolidata dal primo secolo di commercializzazione di massa della lettura, si sono infiltrate decine di etichette nuove, come nel caso di quelle categorie sociologiche come Young Adult o New Adult, che hanno preso il posto di categorie estetiche romanzo d’avventura, del mistero, fantastico.

Io ai generi ci ho sempre creduto poco, fin da quando, sui banchi universitari cercavano di inculcarmi le teorie tassonomiche di Vittorio Spinazzola, che postulano un campo letterario diviso in livelli, dalla paraletteratura all’iperletteratura. Le ho sempre trovate più utili a un libraio, per dividere sugli scaffali la complessità di un’offerta da 60mila titoli all’anno, piuttosto che al lettore, o allo studioso.

La prova che, in fondo, i generi letterari in fondo servono a poco, soprattutto quando declinati su 100 etichette, piuttosto che su 4 o 5, la troviamo nella letteratura stessa, che quando è vera letteratura cerca sempre di divincolarsi da quella gabbia come un uomo da una camicia di forza. 

L’epidemia, il romanzo dello svedese Per Wahlöö (1926-1975) che è appena stato pubblicato da Einaudi nella collana Stile libero Big, è uno di quei romanzi che lo dimostra abbastanza bene. Sì, perché questo è insieme un romanzo poliziesco, un romanzo distopico e un romanzo apocalittico. C’è la classica indagine e il classico ispettore, c’è una malattia che decima la popolazione di uno stato, ma c’è anche quella leggera iperbole delle idiosincrasie del presente (in questo caso la società occidentale dei consumi) tipica della narrativa distopica, come 1984 di Orwell, il Mondo nuovo di Huxley, La peste scarlatta di London, La strada di McCarthy Fahreneit 451 di Bradbury.

Questa terza dimensione, quella distopica, è decisamente quella più interessante. Certo, il fatto che il presente di riferimento di Wahlöö fosse quello degli anni Sessanta, il ’68 in particolare, può fa venire un po’ di tenerezza ai lettori di oggi. Eppure tra le righe emergono analisi e rifelssioni praticolarmente lucide e precise, soprattutto alla luce di quello a cui stiamo assistendo ora in Italia. È tutto in un dialogo tra l’ispettore Jensen, il protagonista, e un ragazzo della “resistenza” alla Concordia, che è poi una sorta di grande alleanza che domina la politica del Paese senza nome dove si svolgono i fatti. Vale la pena di leggerne qualche estratto:

«La cosiddetta Concordia non è mai stata altro che un bluff. È nata perché il vecchio presunto movimento socialista stava perdendo la presa sui salariati e sulla classe operaia. E in quel momento la socialdemocrazia ha venduto i propri elettori ai conservatori. È entrata nella grande coalizione, o coalizione della Concordia, come venne chiamata più tardi, solo perchè una manciata di persone voleva aggrapparsi al potere».

Vi suona familiare, eh? Ma andiamo avanti.

«La politica e la società erano diventate qualcosa di astratto, che non riguardava il singolo. E per ingannare la gente la si inondava di stronzate censurate con cura sui giornali, alla radio e in televisione. Fino a rincretinire completamente quasi tutti, finché la gente sapeva soltanto di possedere una macchina, appartamento e televisore e di essere infelice; che era più divertente togliersi la vita o ammazzarsi dal bere piuttosto che lavorare».

E ancora:

«È sorprendete che non l’abbiano capito tutti molto tempo prima. Sarebbe bastato guardarsi attorno. Non aveva senso lavorare, non aveva senso imparare qualcosa, se non alcune operazioni tecniche. Perfino gli aspetti fisiologici della vita erano divenuti insensati: mangiare, fare l’amore, mettere al mondo figli».

Insomma, L’epidemia non è certo un capolavoro, ma ha quel che basta per essere un libro che ti leggi in un paio d’ore, che insegui pagina dopo pagina e che, una volta chiuso, ti lascia con la sensazione di non aver buttato via il tempo. È un libro onesto, intrattiene e riesce anche a lanciare un paio di sassolini nell’acquitrino immobile delle nostre coscienze, sassolini che, increspando quelle acque stagnanti, non alzeranno uno tsunami, ma almeno ci ricordano che, mentre noi ci fissiamo annoiati nei nostri social-stagni, la realtà, là fuori, prende delle brutte pieghe.

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