Un salasso che solo a livello di Stato centrale costa 1,2 miliardi di euro l’anno. Cifra consistente, ma quasi ridicola se paragonata ai 12 miliardi di euro di soldi pubblici che ogni anno vengono spesi se ci si sposta in regioni, comuni e province. Benvenuti nell’incredibile mondo delle locazioni passive, ovvero dei salatissimi affitti che le pubbliche amministrazioni devono pagare a terzi privati per dotare i propri dipendenti di una sistemazione. Da qualsiasi parte la si guardi si tratta di uno spreco di risorse che dovrebbe come minimo lasciare attoniti. Innanzitutto perché, secondo la più recenti stime effettuate dal dipartimento del Tesoro, il patrimonio immobiliare di proprietà dello Stato centrale ammonta a 62 miliardi di euro. Che diventano 368 miliardi se si vanno anche a considerare gli asset in mano a regioni, province, comuni.
Da qui la domanda: con questo bendidio di immobili pubblici, tra centro e periferia, possibile che si debbano spendere 12 miliardi di euro l’anno per locazioni passive? Senza contare un altro dato molto eloquente. Ancora oggi nella maggior parte delle amministrazioni abbiamo una superficie media per dipendente pubblico superiore ai 30 metri quadri, che spesso si avvicina addirittura ai 50 mq. Insomma, una soglia nettamente superiore rispetto alla forchetta di 20-25 metri quadri per addetto previsti nientemeno che dalla legge finanziaria per il 2010. E ancora più lontana dalla forchetta 12-20 metri quadri che dovrebbe costituire la media in caso di immobili di nuova costruzione, almeno a stare a quanto richiesto da una circolare del 2012 dell’Agenzia del Demanio. Il problema, come ha ammesso in parlamento nel giugno 2013 lo stesso Demanio, è che per il calcolo del rapporto metri quadri/addetto il 50% delle amministrazioni non ha fornito dati. Insomma, un disastro.
Le cifre
L’Agenzia, guidata da Stafeno Scalera, ha già mandato un faldone con i numeri dello spreco al commissario per la spending review, Carlo Cottarelli, fortemente voluto dal presidente del consiglio Enrico Letta. Ebbene, stando alle carte un assaggio dell’incredibile situazione si ha già a livello dello Stato centrale. Una tabella predisposta dal Demanio, e allegata al testo di un’audizione svolta alla Camera da Scalera il 22 maggio del 2012, fa sapere che in quell’anno risultavano in essere 11.002 porzioni immobiliari occupate dalla pubblica amministrazione centrale e sottoposti a locazione passiva. La superficie complessiva era di 11 milioni e 300 mila metri quadrati, per un costo globale di affitto che lo stessa direttore del Demanio, alla data dell’audizione, aveva stimato in 1 miliardo e 215 milioni di euro. Il tutto, come detto, proprio mentre i dati diffusi dal dipartimento del Tesoro dicono che gli immobili di proprietà dello Stato centrale hanno un valore di mercato di 62 miliardi di euro.
In un’altra audizione alla Camera, datata 12 giugno 2013, lo stesso Scalera però ha chiarito che a quella data la superficie occupata dagli immobili sottoposti a locazione passiva era arrivata a 15 milioni di metri quadrati, Scalera non ha invece fornito una versione aggiornata del numero degli immobili pagati in affitto dallo Stato centrale, che a questo punto potrebbero anche aver superato i 12 mila. A dir la verità era stato anche il governo guidato da Mario Monti a tentare di mettere ordine in questo ginepraio. L’allora commissario alla spending review, Enrico Bondi, predispose una serie di calcoli secondo i quali il costo delle locazioni passive di tutte le pubbliche amministrazioni, comprese quelle periferiche, ammonta alla bellezza di 12 miliardi di euro. Anche qui rispetto a un patrimonio immobiliare pubblico il cui valore è complessivamente stimato in 368 miliardi. Davvero troppo complicato credere che, con un’adeguata razionalizzazione, non si riuscirebbero a spuntare risparmi più che consistenti.
Il pasticcio
L’argomento è tornato adesso in auge in occasione del tentativo del M5S di consentire, all’interno del decreto milleproroghe di fine anno, una revoca dei contratti di affitto. Un discusso emendamento governativo, però, avrebbe previsto la possibilità di recedere entro il 30 giugno 2014 dando un preavviso di sei mesi. Termini coincidenti, hanno tuonato i grillini, e quindi ecco l’ennesima fregatura. Per palazzo Chigi, però, la norma andrebbe interpretata nel senso che dal momento della revoca ci sarebbero sei mesi per sgombrare i locali. In attesa di una soluzione rimane il sapore amaro delle cifre.