Maurizio e la tazzina che ti fa diventare innocente

Sbatti il mostro in prima pagina

Benedetta sia la tazzina. Perché è lei che ha salvato Maurizio Allione: ma il fatto che un ragazzo innocente sia stato salvato da una tazzina, dopo essere stato condannato sui media, oggi dovrebbe far riflettere tutti noi. Provate per un attimo a fare un esercizio, e a mettere in fila questi titoli senza sapere quando sono stato pubblicati: “Gli inquirenti scettici: c’è un buco nell’alibi di Maurizio”. Aggiungete un sommario del tutto intonato: “Gli investigatori sono certi che a sterminare la famiglia sia stato qualcuno ben conosciuto”. Altra pagina, altro dubbio: “Il figlio indica la refurtiva: era nel fosso. Giallo di Caselle, il ragazzo interrogato ancora una volta”.

Altro giornale, altro titolo: “Quel buco di 70 minuti nell’alibi del ragazzo”. Altro sommario interrogativo: “Il problema delle celle telefoniche: dove era il telefonino di Maurizio?”. L’interrogatorio del ragazzo: “Perché avrei dovuto ucciderli? Se avevo bisogno di soldi me li davano!”. E infine la perla: “Ci piacciono le urla. La band, la ragazza e gli screzi con il padre”. Nell’articolo si leggeva questa frase sul gruppo del povero Maurizio: «Sulla loro pagina si descrivono così; “Ci piace sentire le urla, quelle che arrivano da dentro, che ti fanno tremare, ci piace sentire le gocce di sudore che ti riempiono gli occhi come se fossero lacrime”». Quanto agli screzi: il figlio aveva smesso di lavorare per fare il batterista, e a papà Allione questo non era piaciuto. Tutte notizie che si potevano leggere fino a ieri, veicolate a supporto di un’unica tesi: il colpevole è lui.

Non c’è bisogno di citare autori e testate, perché su tutti i quotidiani di ieri c’erano articoli e pezzi di questo tenore. C’è un congegno infernale, che è giusto definire tritacarne, in cui si può finire quando si è sospettati.  Ma è davvero impressionante osservatore come oggi – a distanza di appena 24 ore –  i quotidiani e i telegiornali abbiano invertito la rotta senza soluzione di continuità, siamo passati disinvoltamente dal coro del presunto colpevole a quello dell’innocente ingiustamente accusato. Di mezzo c’è solo un dettaglio, quella tazzina, segnata dall’impronta del vero assassino. Persino averla trovata era ieri un ennesimo indizio sospetto, interpretato secondo l’adagio assai poco garantista, secondo cui la prima gallina che canta ha fatto l’uovo. Oggi viene riletto come una prova della coscienziosità ritrovata di Maurizio. La preferenza per le urla della band ieri erano quasi uno scenario pre-criminale. Oggi un dettaglio di colore. L’impossibilità di dimostrare il proprio alibi per alcuni minuti sembrava quasi una condizione di reticenza. Oggi è un dettaglio irrilevante.

Così come il fatto di vivere mantenuto dai genitori, o di aver fatto solo lavori precari e saltuari – come almeno cinque milioni di giovani in questo paese – solo ieri era un movente (il desiderio di emancipazione economica a mezzo matricidio) e oggi torna ad essere un innocente stigma generazionale. Ecco perché, proprio per non essere moralisti del giorno dopo, occorre riflettere su di un meccanismo di cui siamo prigionieri noi giornalisti: 1) abbiamo bisogno psicologico di un sospettato. 2) ci fa piacere e comodo se le indagini ne indicano uno. 3) siamo schiavi delle ipotesi investigative.

Ma mentre un investigatore può ipotizzare e sbagliare, noi dovremmo abituarci a fare l’ipotesi contraria, ed evitare di trascrivere. Forse avremmo dovuto scrivere che un trentenne, disoccupato, che ama le urla e le atmosfere cupe al pari di qualsiasi aspirante rockstar, e che ha la batteria scarica per 50 minuti al giorno non ha per questo un profilo potenzialmente criminale. Anche perché la domanda da farsi oggi, è: che titolo avremmo, oggi, senza quella tazzina? Bisognerebbe tenerne una sulla scrivania, simbolicamente, e guardarla intensamente prima di scrivere del prossimo presunto colpevole.

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