Sarebbe comodo quanto riduttivo presentare l’ultima opera di Akab con un’iperbolica formula ad effetto. Ad esempio: è un pugno nello stomaco, sì, ma sferrato con un guantone pieno di gesso da Mike Tyson sotto metamfetamina a uno che gli ha offeso la madre appena morta. Esercizio agevole, ma poco fruttuoso.
In questo modo se ne renderebbe l’impatto disturbante ma si smarrirebbero gli elementi che fanno di Monarch un unicum definitivo: sapiente incastro formale, controllo e gestione delle proprie inclinazioni creative, sintesi poetica pari alla rinomata efficacia iconografica dell’autore.
Filosoficamente, la mia weltanschauung è difforme da quella di Akab, ma gli ho sempre riconosciuto la capacità di centrare i nodi delle questioni affrontate, anche se da punti di vista a me opposti, e di saper esprimere quello che ha da dire in maniera potente e chiara (come in una nostra passata conversazione)
Ho già accennato in altra sede, come, in questo caso, l’estrema, quasi intollerabile scabrosità del tema affrontato sembra aver incontrato la sua ispirazione in un equilibrio paradossalmente felice e armonioso proprio in quanto s’impone di toccare le corde discordanti dell’abuso mentale, dello stupro psichico, dell’orrore più reale.
Lo sguardo oscuro e deformante di Akab sulla realtà appare il significante predestinato a raccontare il lucidissimo delirio del progetto Monarch, la fase più avanzata del MK ULTRA, il famigerato piano di controllo mentale sperimentato su cavie, non sempre volontarie, dalla CIA nell’immediato dopoguerra.
Ispirato agli inumani esperimenti di Mengele, anzi inteso come perfezionamento degli stessi, questo progetto che sembra partorito dalle menti congiunte di Hitler e Sade, è stato rivelato e denunciato dalle stesse istituzioni americane fin dal 1975.
Un sistema scientifico di irriferibili torture fisiche e psichiche volto ad ottenere la completa disgregazione psichica del soggetto, onde renderlo uno schiavo assolutamente obbediente, disposto ad eseguire qualsiasi ordine.
Nemmeno la lucidità profetica di Aldous Huxley deviata da un bad trip nei suoi esperimenti sugli stati di coscienza sarebbe stata in grado di prefigurare tale mostruosa epitome di volontà di dominio mentale da parte del Potere.
Come recita l’efficace descrizione del libro: «Monarch è il nome di un tipo di farfalla unico nel suo genere: le Monarch sono in grado di compiere migrazioni da continente a continente, ma attraverso diverse generazioni…Monarch è un libro doppio. Palindromo. Con due versi di lettura. Due punti di vista opposti e complementari».
Tutto l’opera è strutturata su una simmetria speculare, in cui le 30 fasi, o metodi, del progetto Monarch sono testimoniati e raccontati in prima persona dai punti di vista di vittima e carnefice.
Ad ogni metodo corrisponde, sempre in forma duplice, una testimonianza, in forma di breve poema in prosa, un’illustrazione ed un simbolo. Graficamente, partendo dagli opposti estremi, il crescendo parrossistico dei supplizi inferti e subiti culmina nel dissolvimento delle identità di aguzzino e cavia, mostrato nella ricomposizione centrale dell’immagine della farfalla Monarch. Un Tao distorto e rovesciato che assume l’inquietante aspetto di una macchia di Rorschach.
Come già accennato, il segno di Akab, impreziosito dall’utilizzo del colore, si esalta nella rappresentazione del Male, quasi vi si esercitasse da sempre per restituirlo in una delle sue più cupe manifestazioni storiche. L’intera gamma di toni disturbanti evocata nelle sue illustrazioni viene scandagliata fino all’esaurimento per raccontare tutte le sfumature allucinatorie di una possessione mentale progettata a tavolino. Il talento pittorico, da sempre riconosciuto all’autore, si dispiega nell’ abile mescolanza di paradigmi espressionistici e suggestioni che richiamano Francis Bacon.
Ciò che più ci interessa, in questa sede, è però cogliere il complesso, colto gioco di strati di significati e rimandi che l’autore lascia affiorare nei testi. Non parlo solo delle più immediate connessioni che il testo suggerisce (da quella che superficialmente potrebbe essere indicata come sindrome di Stoccolma alla più seria dinamica della dialettica servo-padrone), ma mi riferisco a una serie di citazioni, riferimenti e omaggi più o meno impliciti che innervano l’intarsio letterario.
Echi evidenti delle riflessioni di Carmelo Bene sulla vanità del concetto d’identità e i guasti di cui è composto il linguaggio, delle riflessioni crudamente scatologiche di Artaud sulla fisiologia umana fanno da contraltare al beffardo rovesciamento degli slogan e delle immagini convenzionalmente ritenute “buone” (e non possiamo in questo non pensare a David Lynch).
Di per sè, è assai ironico che venga proposto dalla Logos Edizioni un libro che mostra l’uso distorto, ipnotico e malvagio del linguaggio, nel capovolgimento blasfemo del Verbo e nella manipolazione satanica della logica.
La logica conduce alla macchina e alla tortura, come stabilirono Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo: «Lo sviluppo della civiltà si è compiuto all’insegna del carnefice«, da cui una delle conclusioni possibili che ne facevano derivare era: «non curarsi della logica, quando è contro l’umanità».
In calce a Monarch potrebbe essere messa l’affermazione, attribuita da Gustav Janouch a Kafka, «il Marchese de Sade è il vero e proprio patrono della nostra epoca».
L’assordante progressione di torture fisiche e interiori delinea infatti una vera e propria iniziazione sadiana, raccontata dal vertice di un’accecante e fredda esaltazione intellettuale. Un osceno monumento all’apparente trionfo, smascherato in tutta la miseria del suo tragico fallimento, della volontà umana di controllare il reale.
A tratti, la struttura tipicamente gnostica della duplice visione complementare, induce l’impressione di leggere frammenti disordinati e corrotti dei Proverbi Infernali di Blake. Non a caso, il racconto del carnefice si apre con la citazione di una formula magica utilizzata da Crowley, che del grande poeta mistico inglese fu il primo, cialtronesco mistificatore.
Il risibile equivoco satanico su Blake, in cui inciampò tristemente (tramite una fondamentale incomprensione delle ricerche già citato Huxley) Jim Morrison e con lui tutta la generazione flower-power, e i suoi stanchi epigoni anni’70, divenuti “cattivi” per reazione (da Bowie a Jimmy Page), va cancellato una volta per tutte dal catalogo dei luoghi comuni urticanti.
La coscienza gnostica del Male non è la patente dei satanisti, altrimenti lo sarebbero anche Dante, Michelangelo e Mahavira, al contrario luminosi testimoni della luce interiore. Non è una digressione peregrina parlando di quest’opera, anzi l’incrocio pericoloso tra tensione mistica e furiosa negazione è un nodo che ricorre nel libro, come nelle figure prima citate (soprattutto Bene e Artaud) le cui tracce sono ben presenti nel testo.
Ad esempio, nel restituire il delirio d’onnipotenza del carnefice, la sintesi poetica tocca momenti di perfezione aforistica, sfiorando l’illuminazione.
La frase «Dio è dove non ci sono più dubbi» è una splendida sintesi dell’idea di Nirvikalpa Samadhi, lo stato meditativo più alto nello Yoga, in cui il tutto appare come un Uno indifferenziato al di là della dualità illusoria.
Il percorso verso l’Uno, la ricomposizione dell’unità originaria, dichiarata dal carnefice, è però qui ricercata attraverso un’ascesi infernale, proprio come nei riti di iniziazione delle SS, nel capovolgimento sistematico dei simboli positivi e dei tradizionali rituali di luce. Siamo al nadir dello Yoga, invece dell’integrazione assoluta della psiche, l’obiettivo è la disintegrazione dell’io, il dissolvimento inorganico della coscienza.
Al termine della lettura, a tratti insostenibile, appare cristallino il merito di Akab: quello di aver estratto dal fango dell’orrore umano, districandosi nella pericolosa giungla dei deliri complottistici, momenti di incandescente poesia.