Secondo le statistiche Onu, nel 2050 un abitante su 4 della terra sarà africano. Gli abitanti del Continente africano passeranno dai 5,9 miliardi del 2013 agli 8,2 miliardi entro il 2050.
La popolazione dell’Africa sub-sahariana è quella che crescerà al ritmo più sostenuto. Per la metà del secolo quadruplicherà, guidata dalla crescita della Nigeria che dovrebbe diventare il terzo paese più popoloso del mondo (al momento in testa vi sono Cina, India e Usa). L’Etiopia avrà 188 milioni di abitanti. Repubblica Democratica del Congo, Tanzania ed Egitto avranno in totale oltre 400 milioni di abitanti. Anche Niger e Uganda cresceranno, e di molto. Queste cifre si prestano a una serie di osservazioni. Che cosa comporta una crescita demografica di tale entità per l’Africa? Quali le conseguenze per il Continente e per il mondo intero?
Evoluzione della demografia mondiale secondo il World Population Wallchart dell’Onu
Cinzia Buccianti demografa dell’Università di Siena (il suo blog) mette a fuoco alcuni punti.
«Ad un passo dal fotofinish dei Millennium development goals (2015) promossi dalle Nazioni unite nel 2000, è lecito interrogarsi sulle problematiche che potrebbe aprire l’esplosione demografica africana, considerando che la sola Africa Sub-Sahariana al 2012 segna un tasso di natalità pari al 40% contro un tasso di mortalità pari al 13%. Osservando nel dettaglio, si nota che è l’Africa Centrale e Occidentale a contribuire maggiormente a questa crescita, nonostante gli alti tassi di mortalità sotto i cinque anni (rispettivamente pari a 174‰ e 137‰).
Questa crescita demografica, comparata con l’impegno dei governi nel supportare direttamente il sistema di pianificazione familiare (gli ultimi dati disponibili risalgono al periodo 2010-2013) dimostra una certa preoccupazione nelle leadership africane. Infatti, nonostante le campagne condotte a livello nazionale e in partnership con organizzazioni internazionali o non governative per diffondere metodi anticoncezionali moderni e più sicuri, il numero medio di figli per donna in età fertile rimane alto (nell’arco temporale 2010-2015 è stimato pari a 4,7 in Africa Orientale, 2,8 in Nord Africa, 2,5 in Sud Africa, 5,2 in Africa Centrale e Occidentale), probabilmente anche in seguito alla riduzione della mortalità infantile e materna. Tuttavia sarebbe superficiale non considerare l’importanza della religione e dei costumi locali (soprattutto nelle aree rurali, dove a metà 2013 ancora vive il 60% della popolazione africana), soprattutto in una fase storica in cui l’Islam pare aver trovato nuovo vigore e in cui la tradizione (inclusa quella religiosa) rappresenta anche un rifugio per far fronte alle sfide e alle insicurezze portate dalla globalizzazione».
Questa crescita e struttura demografica è un problema o una risorsa per i governi africani?
Al momento rappresenta una preoccupazione per i governi africani e per le agenzie internazionali che collaborano con loro, però la presenza di una popolazione giovane, se adeguatamente gestita, potrebbe rappresentare la marcia in più per questa parte di mondo. A metà del 2013, il 41% della popolazione africana aveva meno di 15 anni e solo il 4% superava i 60 anni (a causa di una speranza di vita ancora contenuta). Seppur questo dato possa sembrare allarmante, va collocato nel contesto attuale, in cui le banche africane stanno beneficiando della crisi europea, in quanto gli investitori preferiscono ricorrere ad esse piuttosto che a quelle europee, creando così una maggiore disponibilità in loco per prestiti che potrebbero favorire le economie locali, e le istituzioni devono riuscire a dipendere meno che precedentemente dagli aiuti esteri che vengono a mancare.
Di conseguenza, l’Europa potrebbe giocare un ruolo determinante nella formazione di queste giovani generazioni, invogliandole a impegnarsi nella promozione e costruzione socio-economica e politica dei loro Paesi, soprattutto ora che lo spauracchio dei grandi flussi migratori da queste zone pare terminato, in quanto sembra aver preso piede una migrazione fra Paesi del sud del mondo (Capo Verde per citare un esempio sugli altri), dato che già nel 2010 il 34% (pari a circa 73 milioni di persone) dei migranti internazionali proveniva da un Paese del sud del mondo e si stanziava in un altro Paese del sud del mondo, eguagliando il dato delle migrazioni con traiettoria sud-nord (35%). Infatti nel 2010 i migranti africani rappresentano il 53% dei migranti internazionali, ma 15,5 milioni si sono stabiliti in Africa, mentre solo 7,7 milioni in Europa.
Altro punto cruciale: una popolazione giovane è quella capace di attuare rivolte, rivoluzione e “primavere”, cose mancate nell’Africa subsahariana finora. Certo una popolazione giovane, soprattutto se insoddisfatta, può essere più fonte di disordini che di innovazioni, eppure sembra che la Primavera Araba abbia avuto un’onda corta, che si è infranta contro le dune sahariane e non abbia toccato i Paesi sub-sahariani che in troppi casi sono ancora alle prese con annosi conflitti etnici (Etiopia, South Sudan) che impegnano risorse che potrebbero essere orientate alla concretizzazione del potenziale socio-economico dei diversi Paesi e alla creazione di servizi per soddisfare una popolazione in espansione.
Come ricordava il Sole 24 ore qualche mese fa, il Pil africano continua a salire. Quello dell’Africa Sub sahariana, secondo il Fondo monetario internazionale, è cresciuto nel 2012 del 5,1%, del 5,4 nel 2013 e del 5,7 per cento nel 2014. Etiopia, Mozambico, Tanzania, Congo, Zambia, Nigeria e Ghana dovrebbero rientrare, nei prossimi 5 anni, tra le economie con la crescita più forte al mondo. Sempre il quotidiano di Confindustria ricordava che il boom demografico e crescita economica insieme dovrebbero comportare un ampliamento della cosiddetta classe media. Uno studio McKinsey la definisce composta da chi guadagna almeno 20mila ero l’anno. Secondo i dati della Banca mondiale e dell’African development Bank, gli africani appartenenti alla classe media sono 350 milioni.
Stiamo parlando di un mercato in espansione, di società in crescita, spesso poco raccontate sui media internazionali: una borghesia africana che acquista, che produce, che va a incidere (resta da vedere quanto) sulla sua classe politica e dirigente. Altro punto utile per l’analisi: i processi di urbanizzazione. Nel 2016 circa 500 milioni di africani abiteranno nelle città e il numero di metropoli con oltre un milione di abitanti passerà a 65 dalle 52 del 2011. Questo porterà a una graduale trasformazione della vita, della società e dei consumi, perché i guadagni di chi vive in città sono l’80% più alti in media di chi abita delle zone rurali.
«Risulta sicuramente difficile e azzardato fare previsioni su un intero continente, a causa della situazione composita, tanto che alcuni Paesi sotto alcuni aspetti si presentano in controtendenza o possono indurre a superficiali conclusioni», sottolinea ancora la Buccianti. «Del resto l’attuale classe media africana, soprattutto in termini di risorse economiche, può essere considerata il frutto delle rimesse di parenti che si trovano all’estero (Eritrea), del ritorno di persone precedentemente espatriate e tornate ad investire nel Paese d’origine (Etiopia, Angola), della presenza di multinazionali che acuiscono la polarizzazione socio-economica, determinando un’élite in grado di beneficiare degli investimenti stranieri, una classe media che sfrutta le opportunità lavorative offerte dagli investimenti esteri e una fascia di popolazione esclusa da queste dinamiche e costretta a vivere sotto la soglia di povertà (Nigeria)».
Cinzia Buccianti sottolinea le peculiarità del Corno d’Africa. «In Eritrea, ormai da anni considerata un “produttore naturale” di migranti economici e politici, nonostante abbia una popolazione contenuta (stimata pari a 3,2 milioni al 2010) al 2013 il tasso di occupazione della popolazione con più di 25 anni era dell’ 84,1% (contro il 47,3% dell’Italia) e la crescita del Pil è dell’8%. Attenersi solo ai dati non aiuta però a capire la complessità e la dinamicità di questo Paese che deve la sua stabilità ad un governo forte retto da Isayas Afeworki da ormai più di venti anni, che garantisce al contempo l’assenza di conflitti interni fra i 9 gruppi etno-linguistici e un elemento di insoddisfazione e terrore che determina la fuga della popolazione giovane. Sono situazioni come questa che ancora legano a doppio nodo le vicissitudini europee e quelle africane, come hanno dimostrato ancora i fatti tragici degli ultimi mesi».
E gli sbarchi e i naufragi degli eritrei a Lampedusa sono lì a ricordarlo. Qual è l’Africa che vedremo, quindi? Sicuramente più popolosa, più ricca, e probabilmente più sfruttata, a meno di diverse politiche di intervento da parte dei grandi attori presenti: la Cina, che si muove sul piano economico con grande efficacia, degli Usa che vedono (o forse vedevano) l’Africa in soli termini militari e di sicurezza, la Francia che ha recentemente fatto dell’interventismo nelle sue ex colonie (vedi in Mali) una nuova bandiera.
E proprio sulla presenza di uno dei tre grandi attori, Buccianti lancia un allarme: «La presenza cinese annienta la capacità imprenditoriale dei Paesi africani, soprattutto sub-sahariani, i cui mercati subiscono l’invasione dei prodotti asiatici a basso prezzo, inducendo le industrie locali non più competitive a chiudere e creando bacini di disoccupazione che se adeguatamente coscienti o politicizzati rischiano di destabilizzare l’assetto socio-politico della regione».
La presenza cinese crea a volte “allergie” alla popolazione locale non v’è dubbio, ma è altrettanto indubbio che i cinesi a volte dotano i paesi africani delle infrastrutture necessarie ad assorbire questa crescita demografica. Senza grandi opere e grandi arterie stradali, per esempio, dove si muoveranno i milioni di africani che con sempre più dollari in tasca e magari in sella a una indistruttibile moto 125 quattro tempi (Pechino ne vende un milione l’anno nella sola Nigeria) daranno un volto nuovo al continente?