Pedaggi, come le concessionarie ci spremono al casello

Autostrade rapaci e fattore X

Al casello dovete prendervela con lui, il fattore X. È sua la responsabilità dei rincari dei pedaggi autostradali, puntuali ogni inizio gennaio: +3,8% medio nel 2013, +3,9% quest’anno, con punte che superano l’8 per cento. È però la manciata di km che separa Padova da Dolo, piccolo paesello tra la città del Santo e Venezia, a segnare il record assoluto: +250% per cento nel giro di 24 ore. 

Che i balzelli salgano inesorabilmente ogni dodici mesi non è una novità. Il perché è meno scontato, e la risposta è in un’equazione. O meglio, sei. Tante sono infatti le formule magiche con cui i tecnici del ministero delle Infrastrutture calcolano la remunerazione degli investimenti da destinare alle concessionarie. Una delle poche a renderla pubblica è Autostrade per l’Italia, concessionario parte del gruppo Atlantia della famiglia Benetton, che controlla poco meno della metà dei 6.668 km di arterie sparse sul territorio nazionale. Il 13,4% delle quali è gestito direttamente dal concedente, l’Anas. C’è poi la famiglia Gavio, a cui fa capo circa il 20% della rete tra cui la Torino-Savona, e Carlo Toto, plenipotenziario della rete abruzzese. Il resto è spezzettato in una pletora di 26 concessionarie locali pubblico-private che non aiuta a creare economie di scala – talvolta le tratte non superano i 40 km – né tantomeno risparmi per i consumatori.

L’alchimia matematica che consente alle concessionarie di alzare i pedaggi ogni 365 giorni con l’avallo del dicastero attualmente guidato da Maurizio Lupi è la seguente: ΔT = 70%ΔP + X Investimenti + K, dove P è l’inflazione reale registrata nei 12 mesi precedenti (1° luglio-30 giugno); X investimenti è il fattore di remunerazione delle opere – calcolato sulla base di un determinato tasso di ritorno – e K è il fattore di remunerazione delle nuove opere. Il Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica e finanziaria, definisce così il “fattore X”: «è il fattore percentuale di adeguamento annuale della tariffa determinato all’inizio di ogni periodo regolatorio e costante all’interno di esso, in modo tale che, ipotizzando l’assenza di ulteriori investimenti, per il successivo periodo di regolamentazione il valore attualizzato dei ricavi previsti sia pari al valore attualizzato dei costi ammessi, tenuto conto dell’incremento di efficienza conseguibile dai concessionari e scontando gli importi al tasso di congrua remunerazione».

Essendo il pedaggio l’unica leva possibile, la “congrua remunerazione” menzionata dal Cipe ricade interamente sugli automobilisti. La cifra finale che l’utente deve sborsare comprende inoltre una tariffa unitaria per i km percorsi – incluse le quote di competenza Anas (il concedente) che vanno da 6 a 18 millesimi di euro a seconda della classe del veicolo – Iva compresa. Al contrario, la concessionaria versa il 2,4% dei proventi annui dei pedaggi (al netto dell’Iva) all’Anas, oltre a sobbarcarsi i costi di manutenzione, 21 miliardi di euro dal 1997 a oggi per Autostrade per l’Italia.

Tuttavia, gli accordi sulla remunerazione degli investimenti tra ministero e concessionaria (i fattori X e K) sono secretati. Nel suo libro I signori delle autostrade (Il Mulino, 2008), l’ex docente di Scienza delle Finanze all’Università di Bergamo, Giorgio Ragazzi, scrive:

«Il piano finanziario 1997-2038 allegato alla convenzione (tra le Autostrade privatizzate e Anas, ndr), redatto in lire a prezzi costanti 1996, prevedeva investimenti per 3,6 miliardi di euro nel quinquennio 1998-2002, e un tasso interno di rendimento (Tir) del 7,14% sull’arco dei quarant’anni della concessione. Il Tir previsto era molto elevato: si trattava infatti di un rendimento reale, essendo stato calcolato nell’ipotesi di prezzi costanti, per di più al netto delle imposte, difficilmente giustificabile per un’attività a rischio pressoché nullo».

Investi 100, guadagni 7, con l’unico rischio del calo del traffico causa crisi. Piccolo particolare: nel giro di 14 anni l’investimento è ripagato, ma la durata delle concessioni, come scrive Ragazzi, è di gran lunga superiore. «Se nelle privatizzazioni sono stati sovrastimati gli attivi da remunerare, nella definizione della redditività prospettica degli investimenti le concessionarie hanno giocato al ribasso, e gli ispettori del ministero l’hanno accettato», spiega Ragazzi a Linkiesta, che conclude: «L’aumento annuale dei pedaggi anche per le vecchie autostrade già ammortizzate, le cui gare sono state vinte più volte dalle stesse concessionarie rappresenta una forma di tassazione indiretta».  

Dal ministero, senza smentire né confermare la “congrua remunerazione” al 7%, fanno sapere che il tema degli aumenti tariffari sarà affrontato dopo l’incontro tra Lupi e le commissioni parlamentari sulla revisione delle concessioni, previsto per la prossima settimana. Solo a quel punto, promettono a Linkiesta, saranno diffuse le tabelle che riguardano i ritorni sulla remunerazione degli investimenti X e K. Quelle secretate. Stando al bilancio di Atlantia al 30 settembre scorso, gli aumenti della rete gestita dalla holding dei Benetton vanno dal +3,54% di Autostrade per l’Italia al +14,4% del Raccordo autostradale Valle d’Aosta, partecipato dalla Regione. I ricavi della società, invece, ammontano a 2,4 miliardi con un margine lordo pari a 1,5 miliardi: uno strabiliante 60%, superiore persino ai grandi marchi del lusso.

«Parte dei ricavi di Eni, Enel e delle utilities sono determinati da business a tariffa regolata, ma a differenza delle concessioni autostradali i meccanismi per calcolarli sono puntualmente comunicati dall’Autorità per l’energia elettrica ed il gas» osserva Andrea Boitani, docente di Economia monetaria alla Cattolica di Milano e studioso di trasporti. L’esecutivo Monti ci ha provato con il “price cap”, fissando cioè un tetto alla remunerazione degli investimenti, consentendo così alle concessionarie più efficienti di guadagnare degli extra profitti, e contemporaneamente di abbassare progressivamente i pedaggi per gli automobilisti. Una riforma che sarà valida soltanto per le nuove concessioni, e sarà gestita dall’Autorità per i trasporti, nata sei mesi fa ma assurdamente senza alcuna giurisdizione sulle concessioni esistenti.

Monitorare affinché i Benetton e i Gavio rispettino le tabelle di marcia sui lavori di ammodernamento della rete e non se ne approfittino spetta all’Ivca (Ispettorato di vigilanza delle concessioni autostradali) fino al settembre 2012 sotto l’Anas, oggi spostato al ministero dei Trasporti. Il numero uno della struttura è Mauro Coletta, consigliere d’amministrazione delle Ferrovie dello Stato e presidente di Cal, la concedente delle autostrade lombarde, finito al centro di un’interrogazione parlamentare del MoVimento 5 Stelle all’epoca della strage di Acqualonga, in cui un pullman di pellegrini è precipitato in un viadotto in Irpinia causando la morte di 39 persone.

A leggere le Determinazioni della Corte dei Conti sul bilancio 2011 dell’Anas, le frecce nell’arco degli ispettori autostradali sono a dir poco spuntate: «Ad oggi, non risultano ancora definite le modalità per il subentro del Ministero ad ANAS nei contratti relativi a beni e servizi strumentali di pertinenza dell’Ispettorato di vigilanza sulle concessioni autostradali (IVCA) in essere alla data del 1° ottobre 2012, né sono state individuate le risorse finanziarie relative all’IVCA che dovrebbero essere versate al MIT per provvedere agli oneri di funzionamento della predetta Struttura». Nel 2013 non è cambiato nulla, anzi: secondo un’interrogazione risalente allo scorso ottobre firmata da una ventina di senatori, «il personale ex IVCA, pari a 120 unità di indubbia qualificazione e spessore professionale, si trova in condizione di sostanziale non utilizzo». I concessionari mangiano, gli automobilisti pagano. 

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