Perché la privatizzazione di Poste è buona e giusta

La riunione al ministero dell’Economia

Una missione quasi impossibile. Politicamente, perché finanziariamente conviene. Mettere sul mercato il 40% di Poste Italiane, controllata al 100% del ministero dell’Economia – obiettivo che negli ultimi dodici mesi è riaffiorato più volte come un fiume carsico – potrebbe rivelarsi più difficile del previsto. Per una semplice ragione: agli investitori non è chiaro che entità sia la società guidata da Massimo Sarmi. BancoPosta, Poste Vita, Poste Mobile, servizio postale, servizio al debito per conto di via XX Settembre attraverso la Cassa depositi e prestiti. E come se non bastasse, parte di una compagnia aerea nuovamente in crisi di liquidità: Alitalia

Attività diverse che se non comunicate correttamente ai potenziali investitori aumenterebbero lo sconto “da holding” sul valore patrimoniale delle singole attività. «La volontà politica di procedere c’è, ma non è ancora stato nominato alcun advisor», spiega a Linkiesta una fonte del dicastero guidato da Fabrizio Saccomanni al termine della riunione del 21 gennaio, che ha affrontato l’argomento. Per il viceministro allo Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni, Antonio Catricalà, sarà conclusa in 5-6 mesi. Con il rimpasto alle porte e la stagione delle nomine in arrivo a maggio, che coinvolge anche l’amministratore Massimo Sarmi – in sella da 12 anni – i tempi sono tutt’altro che certi. Per far partire l’iter e la conseguente ricerca di un consulente è comunque necessaria l’approvazione formale del consiglio dei ministri tramite un decreto (Dpcm) preparato dal ministero dell’Economia di concerto con lo Sviluppo Economico. L’esecutivo punta a raccogliere circa 5 miliardi di euro.

Se Royal Mail – i cui ricavi nel 2012-2013 sono saliti a 9,2 miliardi di sterline con margini a 915 e un debito di 906 milioni (i pacchi contano per il 50% dei ricavi e sono saliti del 9% negli ultimi dodici mesi – è un benchmark inarrivabile (guardando al solo core business postale), CTT-Correios è invece una storia di successo a cui ambire. Il gruppo postale portoghese è sbarcato sul mercato a metà dicembre nell’ambito del piano di privatizzazioni negoziato con la Troika dal governo lusitano, che ha raccolto 579 milioni di euro vendendo il suo 70% al massimo della forchetta di prezzo (5,52 euro), mentre il rimanente 30% è rimasto nelle mani della holding statale Parapublica. Nei nove mesi del 2013 l’utile netto è salito del 28% rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente a quota 45,2 milioni di euro, ma ciò che ha convinto gli investitori è un payout (la percentuale dell’utile destinata ai dividendi) del 90% nel 2014, stando al prospetto informativo dell’Ipo. Particolare interessante in ottica italiana: CTT-Correios per legge può collocare direttamente il debito pubblico portoghese, in cambio di una commissione che va da 30 a 50 punti base sul rendimento del titolo del Tesoro venduto al pubblico retail. È da questo servizio, assieme alle rimesse per i migranti – con 10mila corner in negozi e supermercati – che deriva l’esplosione degli utili.  

Al contrario, tra Poste Italiane e ministero dell’Economia c’è la Cdp. Considerando che la vita media dei 2mila miliardi di debito pubblico italiano è 6,9 anni, ogni anno vanno rifinanziati circa 300 miliardi di euro. Lo stock del risparmio postale nel 2012 ammontava complessivamente a 313,7 miliardi, esclusi i conti correnti postali (27,1 miliardi). Se la durata fosse identica a quella media del debito, significa che ogni anno libretti di risparmio e buoni fruttiferi contribuirebbero ipoteticamente al debito pubblico per 45 miliardi di euro. Il 15 per cento. In ogni caso, stando al bilancio 2012, ultimo disponibile, su 24 miliardi di ricavi, 15 provengono dai servizi finanziari e assicurativi (Poste Vita) – in crescita del 5,5% sul 2011 – e solo 4,5 dai servizi postali, in contrazione del 9,8% rispetto ai dodici mesi precedenti. Le compensazioni dello Stato per il servizio universale, invece, sono leggermente scese a 360 milioni a fine 2012.

Rimane, in ottica quotazione, il delicato tema della razionalizzazione di uffici e dipendenti. In Portogallo, ad esempio, nel 2012 CTT ha ridotto l’organico del 4,8% a quota 13.167 dipendenti. In Italia è il ministero dell’Economia a dover pagare la pensione dei postini, versando un miliardo di euro l’anno. Ora, se l’ufficio postale fosse una banca, e in parte lo è, per misurarne l’efficienza basterebbe calcolare il margine d’intermediazione generato al netto dei costi del personale (per gli istituti di credito è il cost/income ratio). Gli uffici postali in Italia sono 13.676 i dipendenti 138.895 e costano complessivamente 5,6 miliardi (40mila euro a dipendente), mentre i ricavi (Poste Spa) si assestano a 9,4 miliardi. Capire qual è il cost/income degli sportelli favorirà una razionalizzazione che, assieme al blocco del turnover, renderà l’azienda efficiente e più appetibile. Il che non significa necessariamente licenziare: in Portogallo le uscite sono avvenute attraverso prepensionamenti e ricollocazione del personale su servizi ad alto valore aggiunto, come quelli bancari. Sempre a proposito di dipendenti, l’altro nodo da chiarire sarà la partecipazione al capitale: si ragiona sul 10%, per Royal Mail è il 20 per cento. 

Guardando all’andamento borsistico, molte compagnie europee negli ultimi dodici mesi hanno segnato buone performance: le azioni dell’austriaca Osterreiche Post sono salite del 10% a 34 euro, quelle di Deutsche Post del 53% a 27 euro, l’olandese Post NL addirittura del 121% a 26,8 euro. Oltre alla crescita dell’ecommerce, che premia chi come Royal Mail e Deutsche Post vanta centri logistici avanzati, la spiegazione sta tutta nei servizi finanziari: le poste in molti casi sono banche, ma non devono sottostare alla regolamentazione comunitaria sugli istituti di credito. 

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