Non è solo la famiglia Agnelli a dover ringraziare Sergio Marchionne. Il fondo Veba – dedicato all’assistenza medica dei pensionati delle big three di Detroit – controllato dal sindacato Uaw, ha 3,1 miliardi di dollari di debiti in scadenza per la parte che riguarda gli ex dipendenti Chrysler. Stando a un documento del Dipartimento del Lavoro Usa datato 2011, nel complesso le passività di Veba ammontavano a 33 miliardi: Bob King, il combattivo presidente del sindacato, deve aver pensato che era meglio la certezza di un incasso immediato vendendo al Lingotto rispetto a una quotazione incerta, mentre la Federal Reserve avviava la riduzione del programma mensile di acquisto di titoli di Stato Usa. Oppure, ma questo non è dato sapere almeno ad oggi, il rosso di Veba si è ulteriormente aggravato negli ultimi tempi, costringendo il sindacato alla vendita.
In ogni caso, quando lo scorso agosto Marchionne è tornato ad avanzare la proposta di acquisizione del 41,5% di Chrysler in mano a Veba, lo Uaw ha presentato alla Sec (la Consob americana) il filing S-1, il documento di registrazione che avvia il processo di quotazione di una società a Wall Street. All’epoca, i media statunitensi pizzicarono la sigla sindacale, bisognosa di reperire risorse fresche per finanziare i piani dei suoi 61mila iscritti. Una volta pubblicato il consolidato 2012, lo scorso 18 ottobre, si è saputo anche il quantum: i debiti legati alle pensioni e all’assistenza sanitaria sono saliti a 13,4 miliardi di dollari nel 2012, a fronte di un valore netto degli asset di 10,3 miliardi, un terzo dei quali derivanti proprio dalla partecipazione in Chrysler.
I calcoli dell’Uaw hanno evidenziato l’insostenibilità prospettica degli investimenti di Veba. Da qui l’idea di percorrere la strada di General Motors, andando sul mercato forti di 42 mesi consecutivi con il segno più alla voce vendite. Stando ad un report diffuso in quei giorni dall’istituto elvetico Ubs, la quota del sindacato avrebbe potuto toccare i 5,6 miliardi di dollari, a fronte di una valutazione complessiva della casa automobilistica pari a 13,5 miliardi. «Meglio che si comprino un biglietto della lotteria», disse tranchant Marchionne in riferimento ai 5 miliardi informalmente chiesti dalla Uaw. Ha vinto lui. A Veba andranno 4,35 miliardi complessivi: 1,75 miliardi cash, 1,9 mediante un’erogazione di dividendi straordinaria da parte della stessa Chrysler, e infine 700 milioni di dollari in quattro anni come integrazione del contratto collettivo sottoscritto con Veba. Questi i numeri del blitz di capodanno: l’acquisizione integrale del marchio americano da parte del Lingotto.
In cambio, come si legge nella nota diffusa il primo gennaio, «la Uaw assumerà alcuni impegni finalizzati a sostenere le attività industriali di Chrysler Group e l’ulteriore implementazione dell’alleanza Fiat-Chrysler, tra cui l’impegno ad adoperarsi e collaborare affinché prosegua l’implementazione dei programmi di World Class Manufacturing di Fiat-Chrysler» in tutti gli stabilimenti del gruppo. A livello industriale, il futuro del marchio italo-americano si gioca qui.
L’evoluzione del lean manufacturing (produzione snella, ndr) di Toyota (studiato da J.P. Womack, D.T. Jones e D. Roos del Massachusset Institute of Technology nel libro “La macchina che ha cambiato il mondo”, uscito nel 1990), lo standard internazionale World Class Manufactoring (Wcm), è applicato dal Lingotto dal 2005, dopo che alla guida dell’azienda è arrivato Marchionne. Semplificando molto, il processo è integrato in base al valore percepito dal cliente. In altre parole, l’obiettivo è la flessibilità nella produzione – eliminando le operazioni a basso valore aggiunto – logistica e rifornimento in base alla domanda. Il tutto in “fabbriche evolute”, ad alta automazione.
Come spiega a Linkiesta Francesco Zirpoli, prorettore alla Ricerca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e docente di Economia dell’innovazione: «L’arrivo di Fiat è stato salutato molto positivamente dai sindacati americani, proprio perché il Lingotto è tornato a investire nel manufacturing dopo l’infelice esperienza di Daimler. C’è da dire che Fiat non aveva alternative: lo stato delle fabbriche americane all’epoca dell’acquisizione era molto critico dopo anni di gestione orientata soltanto al taglio dei costi. Detta altrimenti, si stava perdendo il know-how. Dopo cinque anni, ora è proprio l’esperienza di Auburn Hills a trainare l’intero gruppo verso un modello unico di produzione».
Parte dei sindacati italiani invece non ha mai visto di buon occhio il World Class Manufacturing. A partire dai metalmeccanici, guidati da Maurizio Landini. In uno studio sul modello, qualche tempo fa la Fiom concludeva: «Il risultato di questa sperimentazione è stata la riduzione dei “fattori di riposo”, con conseguente aumento dei ritmi di lavoro e della fatica, nella maggioranza delle postazioni analizzate». Aggiungendo: «Questa “razionalizzazione” delle operazioni di una mansione (avvitare, svitare, montare, etc. ndr) comporta, a fronte di un’eventuale miglioramento della struttura ergonomica delle postazioni di lavoro, un evidente aumento dei ritmi di lavoro». La Fim Cisl pubblicherà invece il prossimo marzo i risultati di un’indagine realizzata in collaborazione con il Politecnico di Milano e Torino e con l’università di Nottingham proprio sul Wcm. Proprio l’acquisizione di Chrysler mette a confronto due modi diversi di fare sindacato di qua e di là dell’Oceano: maggiormente pronti a cogliere la sfida dell’innovazione e della produzione globale quelli americani, più conservatori e ideologici quelli italiani.
«Zero infortuni, zero rifiuti, zero guasti, zero giacenze», è il claim utilizzato dalla casa torinese per spiegare il Wcm. Nel piano industriale 2010-2014 (vedi tabella sopra), i risparmi derivanti dall’applicazione del Wcm negli stabilimenti Chrysler – il programma è stato lanciato nel 2009 investendo 3,2 miliardi – sono stimati in 1,9 miliardi di dollari complessivi (1 miliardo solo nel 2014), con un coinvolgimento del 90% della forza lavoro in 550 fabbriche. Dal 2006 al 2010, a livello di gruppo sono assestati a circa 730 milioni. La domanda delle sigle italiane, guardando alla situazione americana, sembra la seguente: come si conciliano i nuovi modelli organizzativi con l’impianto di contrattazione collettiva, in fase di rinnovo? A differenza degli Usa, i dati di dicembre sulle immatricolazioni segnano ancora una volta una performance di Fiat (-9,94%) peggiore del mercato (-7,09%) rispetto ai dodici mesi precedenti.
Le economie di scala, sempre dal punto di vista industriale, non si fermano però al Wcm. Dice ancora Zirpoli: «Avere una sola legal entity significa dimezzare i costi legali sulle normative tecniche che descrivono la progettazione degli elementi di cui si compongono le autovetture Fiat». E non solo, basti pensare alla possibilità di operare con una piattaforma informatica in comune, uguale in tutto il mondo. Altri risparmi per il gruppo.
Se il filing depositato presso la Sec americana lo scorso agosto metteva bene in guardia gli investitori sulla difficile convivenza tra i due principali azionisti della casa statunitense, non sono noti gli argomenti utilizzati da Marchionne per convincere Bob King a mollare la presa e per metà autofinanziare l’acquisizione. Secondo il Financial Times Uaw avrebbe preferito la sicurezza di incassare 3,6 miliardi di dollari subito – cifra corrispondente alla valutazione di Chrysler nel bilancio 2012 – invece che rischiare una quotazione dal flottante troppo ristretto per attrarre l’interesse del mercato. In ogni caso, questa oggi è acqua passata. D’ora in poi c’è da implementare un nuovo gruppo globale. La vera sfida si gioca qui.