Un gatto di nome Ulisse torna a casa dopo un lungo viaggio, mentre il musicista folk Llewyn Davis gira in tondo, senza riuscire ad andare da nessuna parte e restando talvolta incastrato in corridoi strettissimi che conducono a porte chiuse. In queste due immagini c’è gran parte di A proposito di Davis, ultima fatica dei fratelli Joel ed Ethan Coen, forse gli unici cineasti contemporanei capaci di mettere in scena con eleganza e semplicità ciò che in mano ad altri sembrerebbe pretenzioso e forzato.
Siamo a fine anni Cinquanta, nel Greenwich Village, durante il revival folk che ha fatto da incubatore per l’avvento di Bob Dylan. Il protagonista è un personaggio di finzione ispirato al cantautore Dave Van Ronk e anche questa scelta era a rischio di spocchia, del tipo “avremmo potuto concentrarci su un nome noto al grande pubblico come Dylan e invece preferiamo pescarne uno che pochissimi conoscono”.
Scegliere Dylan non avrebbe avuto senso, però, perché i Coen vogliono raccontarci la storia di un fallimento. La domanda che aleggia, restando senza risposta, è: Davis è bravo abbastanza da meritare il successo? Confesso di non conoscere il folk abbastanza per dirlo, a parte notare che l’attore Oscar Isaac è pazzesco: esegue tutto dal vivo, in presa diretta. Ma se penso ai segni filmici mi vengono in mente due cose. La prima è che, quando canta, i Coen lo riprendono con affetto e delicatezza, restando incollati al suo viso e spesso isolandolo dal contesto, come se tutto ciò che lo circonda non contasse nulla e la sua voce, le sue emozioni, bastassero a costruire un mondo. Il giudizio della macchina da presa è chiaro: Davis è bravo, molto.
Quando però la cinepresa si sposta sul pubblico le cose cambiano. Gli spettatori del Gaslight Café, storico locale del Greenwich Village, non sembrano gradirlo più di altri musicisti che calcano il medesimo palco. E quando arriva il provino che può fare la differenza, la reazione del manager Bud Grossman (F. Murray Abraham) è sconfortante. Senza contare quella del padre di Davis, che però è malato e dunque conta solo fino a un certo punto.
David è dunque bravo, forse, ma questo non è sufficiente. Se fossimo di fronte a quel tipo di cinema che fa del lieto fine la sua ragione d’essere, allora apparirebbe uno sconosciuto che comprenderebbe le qualità di David e si paleserebbe come un importante manager, pronto a spalancargli le porte del successo. A proposito di Davis ha il suo sconosciuto, ma è uno che tira pugni fenomenali e lascia il nostro protagonista a terra, in un vicolo che ricorda tanto i corridoi stretti di cui parlavo all’inizio. E che per di più apre e chiude la pellicola, complice la struttura circolare della sceneggiatura.
C’è un ulteriore elemento che va messo nel calderone. Non è escluso che la sorte di Davis dipenda dal suo carattere difficile e poco empatico, oltre che da una buona dose di sfortuna. La bella Jean (Carey Mulligan) lo dice senza mezzi termini: «Everything you touch turns to shit. Like King Midas’s idiot brother» (Tutto quello che tocchi si trasforma in merda, manco fossi il fratello stupido di re Mida).
Quando però compare il jazzista Roland Turner (John Goodman), le carte si rimescolano, perché è chiaro che nel suo caso il carattere spigoloso non ha allontanato il successo.
Dunque? Dunque niente, questo è un film dei fratelli Coen ed è normale che la complessità dell’essere umano resti tale, senza semplificazioni utili magari a un certo tipo di narrazione (il lieto-fine-movie) ma inesorabilmente finte. Ed è proprio il personaggio di Carey Mulligan a confermarlo in modo mirabile: angelica sul palco, feroce con Davis, tutte e due le cose insieme perché le persone sono contraddittorie.
Quando i Coen si esprimono al meglio, come in questo caso, i loro personaggi sono quotidiani in modo incredibilmente naturale, come se non fossero il risultato di un attento lavoro di scrittura, ma una registrazione fedele dell’esistente. Allo stesso modo, un impianto registico e narrativo estremamente sofisticato, vedi gatti e corridoi e vicoli, si presenta allo spettatore con una naturalezza sorprendente. Come se fosse facile. Che poi è proprio questo il cuore di un grande film, far sembrare semplice e spontaneo ciò che in realtà è difficile e costruito.