Beck: l’arte di riscrivere il passato

Il nuovo album

Beck aveva trent’anni quando si chiuse in una stanza per una settimana e buttò giù il suo album più deprimente e catartico, così cristallino nelle intenzioni che anche il meno poetico e anglofono degli ascoltatori sarebbe stato in grado di ricondurlo alla fine di un lungo amore. E proprio perché è ormai fatto risaputo che Sea Change racconti senza risparmio di dettagli del termine della relazione di nove anni tra lui e la designer Leigh Limon, quando è stato annunciato che il nuovo Morning Phase – il suo primo disco in sei anni – sarebbe stato il gemello spirituale di quel vecchio e ancora incredibilmente favoloso lavoro m’è venuto naturale pensare che anche il matrimonio con la sorella di Giovanni Ribisi si fosse concluso. Quando, poi, è arrivato il primo estratto, Blue Moon, ne sono stata quasi certa e ho provato dispiacere; ma per fortuna mi sbagliavo. 

Con Beck sono cresciuta e ho sempre identificato uno strano legame. Con la sua musica. Con lui. Perché tra le due cose non c’è tanta differenza, ed è faccenda rara. Se siete nati negli anni Ottanta sapete di cosa parlo. Ricordo che a quattordici anni ascoltavo a intermittenza l’unplugged dei Nirvana e Mellow Gold (1994), il disco cupo e intelligentissimo di un ragazzetto biondo con un video bislacco che passava su Mtv a tutte le ore. Ricordo anche di aver letteralmente consumato Stereopathetic Soulmanure (1994) e One Foot in the Grave (sempre 1994) che, in particolare, ha avuto un merito incommensurabile: farmi capire che dietro le capriole, le diavolerie e l’ingegno di quello stesso ragazzetto biondo c’era un cantautore in attesa di venir fuori. 

Chiedete a qualsiasi appassionato (anche solo vagamente appassionato) di musica e vi dirà che Odelay (1996) è un capolavoro; forse vi dirà che è il disco più grande del ragazzetto biondo che nel frattempo è diventato un istrione schivo, un punto interrogativo, una mina impazzita tra generi, suoni, idee, personalità differenti tutte delle quali perfettamente a proprio agio sul grande palcoscenico degli anni Novanta. Dal mio canto posso dirvi che Odelay è un album che apprezzo tantissimo con il cervello (cosa più che sufficiente, in effetti) ma trovo minore rispetto a quello che – forse – è la sintesi perfetta delle anime di un artista in continua metamorfosi: Mutations (1998), immenso perché ne domina la contraddizione intima. Beck era ed è un folker con una spinta centrifuga, uno per cui il songwriting è il grado zero del genio tanto che quando scrive un disco, ne scrive almeno due. Infatti Midnite Vultures (1999) segue da vicino, anche se somiglia più a una raccolta di b-side di Odelay

Sea Change (2003) arriva tre anni dopo. Prendi Beck, togligli tutto quanto e avrai una specie di Tim Buckley: ecco una scrittura lacerata e brillante spogliata di ogni singolo strato, lucente nella sua nudità; ma il disco è anche una specie di trauma per i fan di Odelay. «Ah, ma che è ‘sta lagna?», dicono in molti: e, sì, è una concept-lagna pazzesca che grazie a Dio si può ascoltare davvero (e capire davvero) solo in una manciata di momenti della vita. 

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Viene il turno dell’interessante Guero (2005) e, un anno dopo, del meno interessante The Information (2006). Il primo appartiene sempre al filone Odelay e contiene dei gran bei pezzi, il secondo – me lo ricordo come fosse ieri – ha un sacco di adesivi fighissimi nella confezione per personalizzare la cover ed è accompagnato da una politica aggressivamente favorevole alla rete, visto che Beck lo rilascia quasi tutto – prima del tempo – online. Intanto a lui succedono un sacco di cose: per dirne qualcuna si sposa e ha un figlio (con Marissa Ribisi), ma gli capita un grave incidente alla schiena che gli rende difficile persino sollevare la chitarra da terra. Così registra, tra gli stenti, Modern Guilt (2008): un lavoro che, ascoltato oggi, sembra effettivamente imploso, trattenuto; un disco che corre sul ciglio dell’efficacia ma non si lascia mai andare. Comincia il giro di boa che dura sei anni. Ma lui non sta con le mani in mano, anzi: scrive colonne sonore di film piacevolmente nerd, fonda un progetto chiamato Record Club, produce degli album (di altri) e si concentra sulla sua etichetta. Solo, non esce nulla di suo. Fino a oggi, avanti veloce al 2014, quando il 25 febbraio uscirà Morning Phase. Ma com’è? 

Potrebbe esservi ormai chiaro che i fan di Beck si dividono in due categorie: gli amanti del filone Odelay e gli amanti del filone Mutations. Potrebbe esservi altrettanto chiaro che io appartengo alla seconda categoria e il mio giudizio si basa sull’affetto verso il Beck-cantautore piuttosto che verso il Beck-innovatore. Fatto sta che Morning Phase ha spiazzato me e spiazzerà quegli altri.

Quando sentirete dire – perché lo sentirete dire – altre centoquattordici volte che il nuovo disco di Beck è il gemello di Sea Change prendete l’informazione con le pinze: non è particolarmente vero. A Morning Phase partecipano i musicisti di Sea Change e l’album si allaccia più o meno direttamente a Sea Change, ma quello è un album disperato e questo è un album gonfio di speranza; una specie di sequel che arriva dopo undici anni. Più che di gemelli, parlerei di due fratelli che non si vedono da un decennio e si assomigliano molto in profondità ma poco all’apparenza. In effetti, nell’ottimo articolo di David Fricke su Rolling Stone Beck stesso sostiene di aver scritto Morning Phase per chiudere un ciclo cominciato con Sea Change: per testimoniare a se stesso che si può uscire benissimo da un momento duro. Così il nuovo lavoro è un passo in avanti per la sua musica: a qualcuno potrà sembrare un disco di transizione che non sa bene cosa vuol essere, ma credo che questa incertezza – proprio questa, soprattutto questa – sia Beck stesso. Sempre in bilico tra il lirismo (il tema conducente del giorno e del nuovo inizio) e la materia (gli arrangiamenti tattili, il peso della tradizione country che penetra quella psichedelica); sempre in bilico tra canzone e invenzione. 

Per chiudere, ecco quel che amo davvero di Beck: è vero che tutti i grandissimi (Bob Dylan, Bruce Springsteen o Neil Young per citarne solo alcuni che mi vengono in mente, ma anche Cat Power o P.J. Harvey) si evolvono assieme alla loro musica e immergersi nella loro discografia è come osservare la loro vita dal loggione, ma Beck forse ha qualcosa in più: è in costante dialogo con un passato che riscrive di volta in volta. Basta guardare queste due copertine per accorgersene. 

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