Ogni scontro di opinioni riguardo all’importanza dell’innovazione, tecnologica ma non solo, come vettore di trasformazione della nostra società nasconde uno “scontro culturale” tra due posizioni opposte che non riescono a incontrarsi perché partono da due visioni differenti. La società può essere in questo senso divisa in due categorie. La prima fazione sarebbe composta da coloro che hanno una predisposizione positiva verso tutto ciò che è nuovo, che chiameremo neofili. Della seconda categoria fanno parte, invece, tutti quelli che invece si sentono minacciati dall’avvento di così tante novità, che chiameremo neofobi.
Nell’impetuoso flusso di informazioni che attraversa quotidianamente la società talvolta non si ha il tempo materiale di elaborare le giuste connessioni, ma molto spesso le news e gli approfondimenti in materia di innovazionen tecnologica tendono ad aderire, alla fine, a una delle due posizioni. Persi nel ritmo del tempo reale può capitare di non accorgersi di come due notizie solo all’apparenza scollegate vadano a illuminarsi a vicenda per rendere più chiaro uno stesso fenomeno, come appunto quello della lotta tra neofili e neofobi.
Sul Guardian, il Business Insider e altri è apparsa la notizia che ha rivelato chi sono stati i primissimi utenti di Facebook. Nella ristretta cerchia sono presenti uno dei consiglieri di Obama e un futuro rabbino appartenente a un gruppo fondamentalista. La spasmodica curiosità che i due articoli vorrebbero suscitare nel lettore si basa sull’equazione che, siccome Facebook è considerato (invero non da tutti) un esempio di coolness, coloro che per primi ci hanno creduto acquisirebbero solo per questo una sorta di aura che li renderebbe più fighi. Secondo il modello che spiega la diffusione e il ciclo di vita di una nuova tecnologia (vedi immagine), costoro sarebbero da considerarsi come innovatori. Questo articolo ha avuto una certa risonanza sulla stampa anglosassone e ciò sta a significare che, tra i neofili, i primissimi utenti di Facebook sarebbero degli utenti alfa, che meritano rispetto per la loro lungimiranza o per il semplice fatto di essersi trovati nel posto giusto al momento giusto, come il futuro rabbino ex-compagno di stanza di Zuckenberg.
Dopo gli innovatori, vengono gli early adopters. ovvero coloro che nella società sono i primi a sperimentare le applicazioni di un nuovo prodotto o tecnologia, generalmente sono giovani, istruiti e hanno una certa influenza sulla loro rete sociale. Dopo gli early adopters c’è l’early majority, ovvero lo strato più ampio della società che si trova a essere mediamente istruito e moderatamente favorevole ai processai innovativi. Infine ci sono i “ritardatari”, ovvero, la porzione di società più neofaba e meno istruita.
Il modello del ciclo di vita dei nuovi prodotti, pensato a livello commerciale, è stato applicato anche, più in generale, alle innovazioni nella società, anche se alcune tecnologie, manifestando livelli di crescita abnormi, sfuggono alla categorizzazione del modello. Si tratta delle tecnologie chiamate “disruptive”, il vero feticcio dei neofili.
In contrasto all’interesse generato da chi fossero i primissimi utenti di Facebook, è apparsa un’altra notizia, sul Telegraph, riguardo alla diffidenza dei cittadini britannici nell’adottare un nuovo prodotto tecnologico. Secondo l’indagine riportata dal Telegraph. sembrerebbe dunque che la maggioranza della popolazione eviti consapevolmente di utilizzare un nuovo prodotto tecnologico alla sua prima comparsa sul mercato. Questa prudente controtendenza neofoba ci ricorda il tempo in cui i cambiamenti erano ancora malvisti e l’equilibrio della società era mantenuto da alcune rassicuranti consuetudini. Nella nostra società è, dunque, in atto una sfida sotterranea e profonda, che si riflette in una instabilità dei valori e dei principi guida che funzionano da driver dei comportamenti sociali. Mentre altre società fondavano la propria stabilità sulle regole e le consuetudini della tradizioni, l’attuale tendenza globale sembra attribuire al cambiamento e a ciò che chiamiamo innovazione un valore superiore. Innovare è bene a prescindere, seconda una certa vulgata degli ottimisti dell’era digitale.
Eppure la società, che è fatta di persone, ha i propri tempi di adattamento e ogni innovazione ha bisogno dei suoi tempi per essere metabolizzata. Che il cambiamento sia positivo di per sé non è scritto da nessuna parte. Il concetto stesso di innovazione, inoltre, è abbastanza fumoso e il modo in cui viene usato, talvolta abusato (come d’altronde il concetto di creatività, suo parente) non fa che renderlo una sterile etichetta svuotata dal suo valore. Eppure, abuso o non abuso, questo dibattito riguardo all’urgenza di un cambiamento evidenzia come l’attuale società nelle sue parti più consapevoli ha la seguente impressione: o si cambia o si muore. I problemi che stiamo attraversando sono talmente tanti e complessi che il non fare niente o l’assecondare le attuali tendenze non può che portare al disastro. E l’Italia è un buon esempio di immobilismo. Anche se una certa dose di neofilia e una di neofobia si trovino mescolate in ciascuno di noi, queste due tendenze opposte concorrono nel dare forma alla nostra esperienza quotidiana e al modo in cui cerchiamo di trovare un sempre nuovo equilibrio in una società che apparirà sicuramente molto diversa tra 10/15 anni.