Letta-Rajoy-Merkel-Hollande, Italia, Spagna, Germania e Francia: quattro premier perbene di grandi paesi europei, competenti ma che non fanno una vera leadership. La storia la fanno quasi sempre le persone, non è mai una linea retta, teleologica. L’estro, il carisma, il coraggio, il talento politico degli individui sono decisivi quando riescono a incrociare le storie collettive e i destini di popoli e nazioni. Oggi tutto questo manca, ed è il vero tarlo europeo.
Domenica in Svizzera è successo quel che molti temevano. Un voto populista che potrebbe cambiare il corso della costruzione europea e cacciarci indietro di decenni bruciando conquiste che sembravano assodate. Negli ultimi tempi ci sono già stati segnali pessimi in Europa: dal Belgio che ha preso ad espellere cittadini comunitari alla Gran Bretagna di David Cameron che intende limitare l’afflusso di immigrati dai Paesi più poveri dell’Ue, tagliando sussidi e benefici sociali. Ma certo il referendum elvetico rappresenta un salto di scala perchè è una miscela impazzita che mischia crisi economica, la paura ancestrale di perdere benessere e status quo, la tentazione di chiudersi a riccio quando le cose vanno male e l’antica diffidenza verso chi arriva da altri paesi.
Magari non succederà nulla perché il governo di Berna ha tre anni di tempo per trasformare in legge l’esito del referendum e perché Bruxelles minaccia ritorsioni che farebbero perdere molti benefici alla piccola confederazione. Ciò che però conta oggi è il simbolismo politico che esce dalle urne svizzere, il potenziale modello emulativo: a pochi mesi dalle Europee il no all’immigrazione di massa diventa lo spartito su cui suoneranno tutti i populismi europei. Berna infatti non fa parte dell’Unione europea ma aderisce a Schengen ed è totalmente integrata alle economie continentali, dove piazza il 60% del proprio export.
Questa è forse la vera novità del referendum di domenica: la dimensione europea entra ormai a pieno titolo nelle scelte di consenso dell’opinione pubblica proiettandosi sul voto di primavera quando le elezioni non saranno solamente il classico appuntamento di mid-term che i partiti usano per contarsi; per la prima volta avranno una valenza diversa: saranno un referendum sull’euro e la costruzione europea.
Questo dovrebbe preoccuparci e soprattutto interrogarci. Non basta alzare le spalle e denunciare la deriva populista di un pezzo importante di opinione pubblica continentale. Il malessere sta ormai tracimando ben oltre i movimenti etnoregionalisti, i nostalgici vetero comunisti e della nuova vecchia destra autarchica. Si tratta di un blocco popolare e (piccolo) borghese, persino in doppiopetto perchè attinge in alcuni filoni accademici no euro e si alimenta della crisi e dell’allergia all’egemonismo tedesco sul continente. Partiti politici importanti, con milioni di voti in pancia, non solo in Italia, capiscono che su questa trincea si sfonda facilmente, il mercato elettorale è potenzialmente ricco (il referendum in Svizzera docet). Il rischio vero è trovarsi a maggio con un parlamento di Strasburgo pieno zeppo di esponenti populisti.
Questo giornale è europeista fino al midollo. Crede alla bontà degli Stati Uniti d’Europa. Lo diciamo con orgoglio a scanso di equivoci, anche se oggi non si porta molto. Crediamo che i difetti e le debolezze italiane siano precedenti all’ingresso nell’euro (la moneta unica li ha solo fatti esplodere come un reagente), pensiamo che sfuse come le sigarette le vecchie nazioni europee siano destinate a soccombere nel grande mondo globale egemonizzato da stati-continente, pensiamo che Europa sia uno stato dell’anima prima che una idea politica, che sono più le cose che ci uniscono da Oslo a Palermo che quelle (tante) che ci dividono e che accusare Bruxelles d’immobilismo sia un perfetto non senso semplicemente perché l’Europa è ciò che i paesi membri vogliono e lasciano che sia. Non è una entità mitologica.
Detto tutto questo sul punto bisogna però essere franchi e dirsi le cose come stanno: in questi anni l’Europa è sempre stata alternativamente capro espiatorio o, per la retorica europeista, panacea di tutti i mali. Lo abbiamo già scritto. «Non c’è mai stata la giusta via di mezzo, il giusto pragmatismo: i governi tecnici (Monti) o tecnico-politici (Letta) sono nati benedetti dall’Europa per correggere pedagogicamente i difetti italiani oppure per commissariare il paese, braccio armato anti democratico di qualche troika finanziaria. Portatori di riforme oppure portatori di austerity. Lo stesso vale per la moneta unica: in troppi hanno sopravvalutato il suo potere (sbagliando), quasi potesse evitare recessioni e spingere sulla crescita infinita, pendant perfetto di chi, invece, gli scarica addosso ogni misfatto e l’origine della crisi e del nostro impoverimento. Posizioni antitetiche che si tengono perchè il populismo finisce per specchiarsi in chi ha sempre sparso a piene mani la retorica europeista».
Un cortocircuito da cui si può uscire solo con leadership europeiste coraggiose, capaci di respingere il morbo populista parlando al cuore della gente, che non mitizzano l’età dell’oro dei padri fondatori ma la sanno adattare con pragmatismo alla complessità dei nostri giorni.
Venticinque anni fa, dopo il crollo del Muro di Berlino, per chi oggi ha quarant’anni l’Europa è stata una grande speranza. La sconfitta definitiva dei totalitarismi europei; la voce di libertà dei dissidenti alla Vaclav Havel; un modo di affrancarsi dalla grande mamma americana, comodo ombrello e alibi per tutte le stagioni; diventare adulti; darsi una soggettività politica, una difesa, un welfare, un modello di crescita e di competitività, un sistema fiscale e istituzioni davvero comuni, non solo un mercato unico. La moneta era l’escamotage per aggirare le resistenze e arrivare all’unione politica in pochi anni perchè il mondo del terzo millennio è troppo grande e competitivo per attraversarlo in solitaria.
Di quella spinta oggi rimane ben poco e certo non per colpa dei populisti di ogni risma che vanno per la maggiore. Non confondiamo la causa con l’effetto. La colpa è del carisma smunto dei leader europei – tipo i nostri LettaMerkelRajoyHollande ritratti in foto -, delle facce notarili e anonime dei commissari Ue (scelti dai governi nazionali), del rito stanco e cinico delle riunioni europee pilotate dai singoli stati membri, i continui rinvii, il decidere di non decidere mai, il guardare al solo euro separando la moneta dal disegno politico complessivo cominciato sessant’anni fa, un parlamento “arlecchino” pletorico e macchinoso, una retorica bolsa sulla bontà taumaturgica dell’integrazione, tradita ogni volta dagli stessi che vi inneggiano.
Di questo passo è diventato facilissimo e popolare sparare sulla croce rossa europea. Basta vedere cosa succede ai suoi confini orientali, tra Moldavia e Ucraina, dove si è passati dal mito americano post caduta del muro al ritorno sotto l’orbita russa senza che l’Europa sappia davvero usare il proprio soft power. Della (non) politica estera comune non ne parliamo nemmeno. Il mito dell’Europa non c’è (più) e se c’è non scalda quasi più nessuno.
Forse la maledizione europea è solo un fatto congiunturale, la sfortuna di aver incrociato la grande crisi e la fine degli stati-nazione con una stagione di leadership infelici, meno visionarie e capaci. Ma questo è quanto e bisogna farci i conti velocemente. Angela Merkel che ha raggiunto Adenauer e Kohl nell’olimpo dei cancellieri tedeschi plurimandato dice molto di questa stagione da basso impero dove la paura ri-nazionalizza tutto, si alzano muri e si riscoprono ambizioni sopite ed egemonismi (tedeschi) che dureranno lo spazio di un mattino, trasformando Bruxelles nella discarica di risentimenti, alibi e cinismi delle classi dirigenti nazionali.
Alla fine della Seconda guerra mondiale i padri dell’Europa fecero un atto visionario, incredibile: misero insieme carbone e acciaio pochi mesi dopo essersi ammazzati nelle trincee perché quello era l’unico modo di non combattersi più dopo 500 anni di sangue e litigi. Ancora vent’anni fa Kohl e Mitterand rinunciarono ognuno ad un pezzo di interesse particolare scambiando la moneta unica con l’unificazione tedesca. Finita la stagione dell’integrazione automatica, archiviato il funzionalismo anni Novanta, chi avrebbe oggi quel tipo di coraggio? Forse Merkel? Forse Letta? Forse Hollande? Forse Rajoy? Nessuno. Perché dunque la gente dovrebbe comprare l’Europa da questi leader a cuore freddo? O sai gettare il cuore oltre l’ostacolo spiegando la concretezza dell’Europa oppure sei destinato a infrangerti davanti all’onda dei populismi…
Questa è la grande sfida del nostro tempo, resa urgente da risultati come quelli in Svizzera. Fare una grande battaglia per spiegare il senso vero dell’Europa contro le opposte retoriche della tecnocrazia e del populismo. E’ l’unica opzione che abbiamo per non soccombere nel mondo dei grandi blocchi geopolitici.