Serie mon amourDa Girls a Looking, le serie tv più vere del vero

DRAMEDY = COMEDY + DRAMA

Ecco, pretenziosa. Bisogna pensarci a lungo per trovare l’aggettivo giusto per descrivere HBO, la cable statunitense che ha portato (ode a te, HBO) nelle nostre vite sacri mostri della televisione seriale, come I Soprano, Six Feet Under, In Treatment, Game of Thrones, Sex and the City e The Newsroom. Un termine, pretenzioso, che da dizionario contiene un doppio significato: pieno di pretese e che ostenta una notevole fiducia di sé. L’emittente via cavo più popolare degli States fa entrambe le cose, soprattutto quando si parla di dramedy (il termine con cui si definisce l’unione di una serie drammatica con una comica). Da un lato sforna prodotti raffinati e ben studiati, dall’altro si auto-presenta come l’unica in grado di portare sul piccolo schermo uno spaccato di realtà, suscitando esaltazioni fuori dal comune ma anche indignazioni e ritegno. Girls con le sue ragazze inette catapultate nella parte più povera e meno chic della Grande Mela è l’esempio più lampante: quante critiche sono piovute dalla generazione di twentysomething che non si rivedono per nulla nell’immagine proposta dalla serie? Quanti hanno visto nelle scene di sesso deprimente, nelle conversazioni vacue e nei comportamenti al limite del patologico un’estremizzazione eccessiva e forzata della condizione precaria (a livello economico, sì, ma soprattutto a livello di sentimenti, ideali, sogni) dei giovani d’oggi?

Ora il testimone è passato a Looking, la prima serie dopo Queer as Folk completamente incentrata su un gruppo di gay maschi di San Francisco che è pronta a subire la stessa tortuosa (ma fortunata) sorte di Girls. I primi episodi andati in onda negli Stati Uniti hanno infatti aperto la diatriba: da un lato gli entusiasti felici di vedere la tematica affrontata in uno show a puntate, dall’altro gli infastiditi, quelli che ritengono riduttivo il voler raccontare la vita di tre ragazzi gay solo limitandola alla ricerca (quasi disperata) di sesso o amore, senza distinguere davvero se stiano inseguendo l’uno o l’altro. Looking si spaccia per realistico e per certi versi lo è: le applicazioni utilizzate per conoscere gente online, l’abbigliamento ultramodaiolo dei protagonisti, il loro non lottare con o contro la propria sessualità (del resto sono 30enni e 40enni, assolutamente in pace con se stessi, che vivono nella Bay Area nota per la sua cultura sessualmente aperta). Eppure non si può negare che questa realtà sia rappresentata sotto forma di un trio che si limita a cercare sesso, a parlare di sesso e a fare sesso, quasi come se fosse la sessualità a definire una persona. Tra loro emerge Patrick che è il corrispettivo di Hannah nella serie di Lena Dunham: esasperante lei, quasi all’inverosimile, deprimente e noioso lui, quasi allo sfinimento. HBO lo sa e ci gioca. È l’unico canale che riesce a far diventare icone personaggi assolutamente odiosi.

Era successo anche con Hello Ladies, uno show ostico che il pubblico americano non ha saputo capire. Certo, non va incolpato: Hello Ladies era difficile da digerire, Stephen Merchant nella parte del nerd disadattato Stuart Pritchard era irritante e fastidioso. Non è facile andare oltre al nervosismo che la sua presenza ingombrante (l’attore supera i due metri di altezza) provocava, peccato: se ci fossero riusciti, i telespettatori avrebbero potuto apprezzare una delle serie più coraggiose e tristi degli ultimi anni. Sulla stessa strada c’è anche Getting On, nuova produzione dall’humor black ambientata nel reparto geriatrico di un ospedale e caratterizzata da un manipolo di personaggi tristi e depressi.

Il successo della cable americana sta anche in questo, nell’essere la vera e propria immagine della realtà contemporanea: non per il verismo che le sue serie emanano (perché spesso l’eccesso la fa da padrone) ma per il saper conferire in ogni sua produzione quell’area dark, solitaria e triste che in fin dei conti caratterizza questi anni di crisi (economica e sociale). Insomma, il fil rouge è evidente: la matrice è di stampo schopenhaueriano e sembra dirci che la felicità è un’illusione creata ad arte.