“Mi sono rotto le palle!”, grida Fabio Fazio. E secondo me dà voce a quello che vorrebbe dire Matteo Renzi, ma non può: il cattivista rottamatore ha sofferto fino all’ultimo per chiudere la sua squadra, mentre il buonista irenico, come si dice a Oxford, ha perso la brocca perché la sua squadra perde ascolti.
C’è un mirabile chiasmo, in questo scambio di ruoli, così come c’è un grande il disordine sotto il cielo, e sembra che il grillismo e l’invettiva siano diventati una sottocultura dominante dell’Italia contemporanea, l’unica risposta possibile all’impossibilità delle riforme e del ricambio generazionale. Questo perché la televisione continua ad essere l’unico network della classe dirigente, sia che si parli della Boschi o della Littizzetto, sia che si parli della formazione di governo che di quella di Sanremo.
Forse dovremo studiare come un manifesto politico l’intervista in cui Fabio Fazio rivendica il suo diritto/dovere all’amarcord, e di certo Renzi introdurrà dei nuovi elementi di casting a Palazzo Chigi: ma poi questo è sempre il Paese che vuole campare di rendita sui grandi vecchi, sulle rotule di Raffaella Carrà, o sulle pause drammatiche del monologo Alzheimer di Franca Valeri.
Iaki Elkann insulta Raffaele Della Valle, Antonio Conte insulta Fabio Capello, Enrico Letta tace ma se potesse ululerebbe: questo – dalla politica al calcio – è il Paese dei giovani vecchi, o dell’insulto, perché non sopporta il normale conflitto, e la dinamica europea moderna del normale ricambio generazionale. «Mi sono rotto le palle!», grida Fabio Fazio: l’era del buonismo e dell’amarcord che fa cassetta si chiude perché saltano i corpi sociali intermedi, i partiti, gli strumenti di mediazione e di convivenza, perché non ci sono più soldi, perché a Torino i bambini disegnano i loro papà che piangono di nascosto perché si sentono abbandonati da tutti. È finita l’era del buonismo, per Fazio. E non solo per lui.