Gibuti, Italia. Viaggio nell’avamposto anti clandestini

Reportage

Gibuti è un fazzoletto arido. Tra sassi e laghi salati, affacciati su un mare splendido e trafficato, vivono 800mila persone. Appena si attera e si incontra un qualunque espatriato (sono tanti, gli italiani circa duecento. Di questi molti nati in Etiopia) il primo messaggio che vi arriva si basa su due concetti: la sabbia e il porto. A ben vedere il terreno di questa ex colonia francese produce infatti solo sassi e sale. Mentre il porto, i cui movimenti hanno contribuito nel 2012 per oltre metà del Pil gibutiano, serve oltre il 90% dell’import via terra della vicina Etiopia. Dal secondo giorno di permanenza si riesce a percepire anche il ruolo della Cina. Sotto traccia, negli ultimi tre anni, l’economia del Dragone ha puntato su Gibuti investendo per il 23,5% del porto poco meno di 200 milioni di dollari, ma soprattutto mirando a ricostruire la ferrovia (un tempo made in Italy) diretta ad Addis Abeba; affiancandovi pure una strada veloce.

È vero che il Paese che nasce da un equilibrio etnico tra Afar e Issa ha di fatto un solo impianto produttivo, quello della Coca-Cola, ma entrando in città e lasciando le guide ufficiali si scopre un tessuto molto più complesso e affascinante. Almeno per chi apprezza le terre di mezzo dove storicamente si incontrano mediatori, mercanti, trafficanti e spie. La presenza tricolore è solida e importante. Gli italiani residenti hanno società di costruzioni o trasporti. Negli anni ’50 l’aeroporto è stato costruito da un italiano nato in Etiopia e oggi a fornire di carburante tutte le basi militari presenti (compresa quella americana che ospita 4mila militari) è sempre un italiano che si divide tra Gibuti e Dubai. Insomma se si toglie la polvere dalla facciata, Gibuti appare come la patria dei servizi e assistenza anche se un po’ bizantina per chi è in transito. Che si tratti di navi, di aerei o di migliaia di clandestini diretti verso la penisola arabica e poi le coste del Mediterraneo. Taluni fino a Lampedusa, se ci arrivano vivi.

Gibuti è dunque la chiave di volta dell’instabile arco che si chiama corno d’Africa. Non a caso fino a dieci anni fa gli unici militari presenti erano i francesi. Era fissa una demi-brigade di Legionari e la difesa aerea era appaltata ai mirage. Adesso di Legionari è rimasta una compagnia di pronto intervento, i mirage continuano a pattugliare i cieli, ma si dividono lo spazio con velivoli giapponesi e inglesi, droni ed elicotteri Usa. Il baricentro si è spostato decisamente a favore di questi ultimi. Ma non c’è stato ancora nessun matrimonio con il governo locale. Pagando l’affitto al momento c’è ospitalità per molti (dopo il porto il secondo business è la militarizzazione della nazione). E si è aperta la possibilità di costruire una base logistica proprio al centro di quella chiave di volta che tiene in difficile equilibrio l’intera regione.

Dopo anni di scarsa attenzione al corno d’Africa, l’Italia ha finalmente deciso di tornare a investire in questa parte del mondo. Dopo un accordo che prevede un affitto da 3 milioni di euro l’anno fino al 2020 (più alcuni camion e una decina di obici semoventi) la scorsa estate ha mandato una decina di militari a fare un sopralluogo, ha individuato un’area di cinque ettari a sud della base giapponese e dell’aeroporto. Esattamente dove inizia il distretto di Nagad e inizia il breve tratto di strada che porta al Somaliland. A settembre 2013 è arrivata la prima aliquota del VI reggimento genio pionieri. Ora la Task force, che porta nome Trasimeno, conta più di 100 persone. Ad aprile quella che sarà la prima base logistica interforze italiana in Africa sarà già completata. Con due medaglie. Una in termini di tempo e l’altra di denaro. «Avevamo già lavorato a Farah in Afghanistan, ma qui a Gibuti si tratta della prima volta all’estero in cui il Genio progetta, costruisce e collauda un’intera base», spiega il comandante del VI Reggimento Col Giuseppe Dimauro. «Collaudando un trend che sicuramente riguarderà anche gli interventi sulle caserme in Italia». 

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Non è da sottovalutare il risparmio del 30% realizzato a Gibuti in questi pochi mesi di lavoro. Sono stati di fatto eliminati gli utili d’impresa e soprattutto sono stati tamponati i ritardi della ditta turca cui l’Esercito aveva appaltato i lavori perimetrali e a far procedere il tutto in linea con lo schema previsto. A fine 2013 alloggi per 150 unità e alla fine della terza fase una capacità totale di 300 persone. Tutto ciò nonostante una burocrazia non certo snella e gli inconvenienti tipici di una Paese africano che spesso rallentano concessioni e import di materiali.

La domenica i militari italiani trovano comunque il tempo di intervenire all’ospedale di Balbala (slum più povero di Gibuti) fondato dalla cooperazione italiana. «Le fogne tracimavano sotto le finestre del pronto soccorso, ora con la donazione del rotary locale, lavoro e mezzi del Genio siamo riusciti a interrarle regolarmente con un’adeguata fossa biologica», spiega l’instancabile capitano Matteo Tuzi, responsabile delle relazioni del contingente fino all’avvicendamento del prossimo 19 febbraio.

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Ma non c’è solo sofferenza. Probabilmente, anche con il simbolo più semplice del made in Italy, la pizza, i militari del Genio stanno spianando la strada ai successori degli altri reparti. Momenti di convivialità che servono per entrare nel tessuto degli espatriati prima e poi dei notabili e dei gibutiani in genere. La domanda che molti si pongono è infatti a che servirà la base dal prossimo anno. Sarà supporto logistico per tutte le missioni che transitano in zona. Ma a nostra avviso sarà finalmente l’occasione di avere antenne italiane in loco. Un investimento fondamentale per fare prevenzione su tutti i fronti. Pirateria e traffico di esseri umani.

Per quanto riguarda i pirati, Roma è attiva nell’area da circa 4 anni. «L’attività di antipirateria dura ormai dal 2008», racconta il capitano di fregata Stefano Calvetti comandante della Libeccio, quasi a fine missione, «le navi italiane sono impiegate sia nell’ambito dell’Unione Europea (Atalanta) che in quello della Nato (Ocean Shield) e hanno contribuito negli ultimi anni a una drastica riduzione del fenomeno della pirateria marittima». Nell’ultimo anno soltanto 6 attacchi di cui nessuno andato a segno. I 237 imbarcati, compresi gli elicotteristi e i fucilieri del battaglione San Marco (gli amici e colleghi di Salvatore Girone e Massimiliano La Torre prigionieri in India) hanno controllato oltre 150 mercantili ed effettuato una trentina di abbordamenti che in gergo vengono definiti approcci amichevoli.

I gommoni affiancano i barchini, salgono i fucilieri «sempre col sorriso sulle labbra anche se il dito resta a portata d’arma», commenta Calvetti, «spesso gli approcci finiscono con l’attività umanitaria, senza contare che un pezzo di pane o di pizza non lo neghiamo mai a nessuno».

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Il soprannome dell’ufficiale medico è infatti Combact Doc. Tra un fuciliere e l’altro si può vedere spesso uno zaino giallo (quello sanitario) che si arrampica sulle scalette. Il che non significa che l’allerta venga meno. Il deterrente è insomma funzionato assieme ad altre iniziative non militari. La base a partire dal prossimo maggio supporterà tutte le operazioni della Marina, ma si troverà inevitabilmente a sostenere i carabinieri che addestrano la polizia gibutiana e somala, il personale che si occupa di comunicazioni. Ma anche forze speciali che faranno intelligence contro il terrorismo e altre che cercheranno di intralciare l’enorme flusso di clandestini che attraversano Gibuti.

Le premesse politiche sembrano esserci. Durante la giornata dei diritti umani, il ministro della Giustizia Ali Farah Assoweh, nel suo speech ha fornito un dato importante: ogni anno transitano nelle regioni nord del Paese 130mila clandestini che mirano ad attraversare il Golfo di Aden nel suo punto più stretto. Ha anche lanciato per il 2014 un programma dal titolo Migration and society project. «Sarà un programma esemplare per il suo carattere pilota e di coordinamento perché a nostro avviso si rivolgerà direttamente ai Paesi destinatari del traffico di esseri umano come l’Italia».

I 130mila migranti pesano da soli sull’80% del budget che Gibuti destina ai medicinali e stravolgono l’intera economia. Chi pescava ora non ha più interesse a farlo e chi si trova in posti chiave nei villaggi è facilmente corruttibile. A ciò si aggiungono i tre campi profughi gestiti da Unhcr. Alcuni, come quello di Ali Addè, esistono da 20 anni. Per raggiungerlo ci vogliono 3 ore abbondanti di macchina dalla città di Gibuti. Si prende la strada per Addis Abeba. Ci si mette in coda tra i camion che hanno caricato le merci in porto. Fino al deserto del Gran Barat. Poi si svolta in direzione Somalia e si arriva all’ultima cittadina, Ali Sabieh, prima di imboccare una pista sterrata. Alla fine si raggiunge una conca. Per accedervi è necessario aggirare un forte costruito negli anni ’30 dai Legionari. Si entra facilmente. Il problema è che serve un visto per l’uscita. E questo si scopre solo alla fine del percorso.

Appena oltrepassato il forte si apre una distesa di tende arrangiate dove vivono. Poco meno di 18mila somali. Un migliaio di Etiopi e circa 200 eritrei, che però hanno una storia molto diversa. Sono tutti prigionieri di guerra catturatati nel 2008 quando Gibuti e Asmara si sono scontrate per un’isola. Quando sue anni dopo l’ex colonia francese ha deciso di restituirli, sono stati dichiarati disertori dall’Eritrea e quindi destinati in questo limbo del mondo. Perché la vita dentro Ali Addè non è letteralmente infernale.

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È vero si muore di malaria, dissenteria, di altre febbri emorragiche. Però si mangia e nonostante ci sia un medico solo e pochi infermieri, le vaccinazioni si fanno. Ciò che ammazza ancora di più è l’assenza di speranza. Molti profughi vivono nel campo da quasi 20 anni. Altri transitano in attesa di unirsi ai flussi migratori verso lo Yemen e il nord. E poi ci sono quelli che bivaccano e fanno da anello di congiunzione con i gruppi di Al Shabab. Dopo l’ultimo attentato a Mogadiscio, i due terroristi sono stati identificati dentro Ali Addè. Che di fatto è un buco nero. I 4000 mila militari americani che vivono rinchiusi dentro la base e spendono in droni e attrezzature milioni di dollari, convivono a soli 140 chilometri di distanza con l’officina di potenziali terroristi. Ancor più della fame è la mancanza di speranza che spinge molti somali ad arruolarsi.

Il concetto non è difficile, ma si sa la geopolitica è spesso differente dal buon senso. Una logica che si applica anche al traffico di esseri umani. E all’aspetto profondo dell’umanità minacciata. «È molto difficile dare risposte secche a chi chiede come si possa intervenire contro il traffico di migranti», spiega monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, «È un fenomeno di così ampia portata che serve un cambiamento culturale a monte. Una situazione economica che renda di fatto più interessante lo stare rispetto al fuggire». 

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A questo si aggiunge sicuramente la corruzione e gli interessi di parte della politica del corno d’Africa che ha scelto di convivere con l’instabilità per curare meglio i propri interessi.

L’idea del governo gibutino (almeno di una parte) è di provare a fare breccia in queste logiche e creare una cooperazione regionale che controlli i progetti, sociali, culturali politici ed economici e s’incastri con l’Igad, l’agenzia per lo sviluppo regionale. Anche l’Italia avrebbe un compito: sostegno agli aspetti sanitari e poi forse supervisione anche sulle attività di polizia. Si è tenuta il 6 febbraio a Gibuti la conferenza contro la mutilazione genitale femminile. Presente anche il nostro ministro degli Esteri, Emma Bonino, da anni impegnata nella sensibilizzazione all’argomento. A margine ha fatto una visita di un’ora alla base rimanendo positivamente impressionata anche dai sistemi ecologici utilizzati. Ma soprattutto ha avuto modo di verificare quanto «Gibuti sia un punto strategico dal punto di vista geografico, un punto importante anche per la Somalia in un momento di grandissima fragilità che sembrava avere momenti più positivi ma che dagli Shabaab in poi pone problemi per tutta la regione». Aggiungendo, prima di incontrare il presidente Ismail Omar Guelleh, che «Bisogna usare questi rapporti che abbiamo perché è un punto di avvio per mettere un argine al terrorismo e alla pirateria, elementi che si riflettono sulle nostre coste». Per il piccolo Paese la visita è stata anche l’occasione per renderla edotta del progetto contro il traffico di esseri umani. Sarebbe, per l’Italia, un investimento interessante, quanto la presenza militare.

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